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Il dovere di essere chiari

Anche il conflitto libico non è sfuggito finora alla regola delle crisi contemporanee che vedono nell’informazione, nelle parole e nelle immagini, un teatro non secondario di battaglia. E’ per questo che vorrei tentare di rimettere in fila brevemente i pezzi del mosaico degli ultimi giorni.

Con un colpo di coda assolutamente inatteso, le Nazioni Unite hanno approvato giovedi scorso la risoluzione 1973 che chiama gli Stati membri, come singoli o tramite le organizzazioni regionali, a mettere in atto una serie di misure coercitive per assicurare la protezione dei civili dalla minacce provenienti dal regime di Tripoli. Su quella risoluzione si sono astenuti due membri permanenti (che avrebbero potuto usare il loro potere di veto) come Russia e Cina e si sono astenuti anche India Brasile e Germania (dando prova, a mio avviso, nonostante il grande potere economico di scarsa attitudine ad assumersi responsabilità di governance mondiale); d’altro canto, a conferma che non si tratta di un’opinione politica dell’ “Occidente” hanno votato a favore paesi come la Colombia o come le due più grandi potenze africane, Sud Africa e Nigeria.
La risoluzione è più dura nei mezzi coercitivi richiesti alla comunità internazionale ma pare perfino più morbida della precedente (la 1970) che non dicendo alcunché sui mezzi coercitivi aveva un giudizio politico ancora più severo, rendendo implicita la richiesta di “regime change” a Tripoli.

Nel fine settimana, ciascuno secondo le proprie regole costituzionali, numerosi Paesi hanno dato disco verde ai rispettivi governi per la partecipazione alla coalizione internazionale.
In Italia, seguendo una prassi che ha un solo precedente – la missione Unifil in Libano deliberata a Parlamento chiuso in agosto – sono state le commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato a votare l’intervento, chiarendo fin da venerdi scorso che quel voto sarebbe stato confortato da un voto del plenum del Parlamento appena possibile, cioè questa settimana.

Il Capo dello Stato – che ha oramai assunto una centralità straordinaria per tutte le vicende rilevanti della vita pubblica nazionale – ha ripetuto durante il fine settimana, davanti alle prime immagini della contraerea o delle vittime in strada – che l’Italia stava agendo per implementare una decisione Onu, in modo da evitare o da limitare al massimo che si aprisse la querelle impropria sull’articolo 11 e sul ripudio della guerra sancito dalla nostra Costituzione.

Ogni intervento militare, infatti, nel linguaggio comune, può essere assimilato o riassunto nel termine “guerra”, ma se l’intervento ha i canoni della giustezza e della legittimità internazionale, è improprio usare quella parola come giudizio morale implicito di condanna. Se un cittadino compie un reato e un tribunale legittimo emette una sentenza, i carabinieri o la polizia lo assicurano alle patrie galere; se uno Stato è punito dalla comunità internazionale per crimini di guerra o per altre gravi violazioni, tocca agli altri Stati compiere la funzione dei carabinieri o della polizia.
E’ sicuramente vero che non tutti i comportamenti gravi degli Stati vengono sempre colpiti o colpiti con la stessa durezza, come del resto capita in ogni ordinamento giudiziario nazionale (con i suoi errori e i suoi accanimenti), ma questo non toglie che quando un regime ha provocato la comunità internazionale con ogni mezzo, quella incompletezza possa essere usata come alibi per l’inerzia.

Il conflitto sul campo andrà seguito passo passo. I primi raid hanno consentito a Bengasi di respirare, di recuperare terreno, hanno spinto Gheddafi ad annunciare (per ora solo annunciare) un cessate il fuoco. E’ vero che hanno anche reso più prudente la Lega Araba che pure aveva chiesto l’intervento e che hanno permesso a Putin di alzare il dito ammonitore. Considero tutto questo un gioco delle parti della politica internazionale, di cui tenere conto ma davanti al quale non paralizzarsi.
Vedremo invece se la Nato assumerà un ruolo più organico nella definizione del quadro di comando. Ad oggi è vero che essa ha reso disponibili alcune infrastrutture tecnologiche per l’efficacia degli interventi ma che non esiste un definito quadro di comando. E’ questo che spiega – davanti all’abitudine (Serbia, Bosnia, Kosovo, Afghanistan ecc.) di avere un intervento affidato ad una organizzazione regionale – la sensazione di una coalizione che nei primi giorni privilegia il fai-da-te. Tutte le sensazioni sono legittime ma credo di poter assicurare che la regola vigente non è certo il fai-da-te; è vero invece che sarebbe difficile dar vita ad una coalizione Nato con Paesi come i partner arabi, che si sono resi disponibili, sottoposti alle linee di comando dell’alleanza.

Credo invece che sia indispensabile che il governo venga in Aula mercoledi a prendere il voto del Parlamento, che ci venga con Silvio Berlusconi, che cessi cioè il gioco delle tre carte con Frattini e La Russa a fare da centravanti, Bossi a criticare la partecipazione in Libia e Berlusconi un po’ di qua e un po’ di là. Se il governo non avesse una propria maggioranza in politica estera, sarebbe inevitabile la richiesta di dimissioni.

Un’ultima postilla: l’attenzione sulla Libia ha spostato alle pagine interne l’apocalisse giapponese e ha ridotto a trafiletti le sommosse di piazza che proseguono in Bahrein, in Yemen così come il referendum costituzionale egiziano.
Occhi aperti. L’informazione, per mestiere, amplifica, sceneggia, retrosceneggia, comprime, dilata, ma l’importanza oggettiva di quei fatti rimane. Anche se a pagina 21.

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150 in Italia, 10 a 5 a New York

E’ stata una giornata importante, brutta solo nel tempo atmosferico, bella per la politica, la memoria, il futuro. Il Presidente Napolitano ha rivolto al Parlamento un discorso molto ricco e colto, una riflessione alta sulla storia di questi 150 anni, sulle sfide che ci riguardano, sull’equilibrio di questa comunità.

Non ho avuto tempo di scrivere un pezzo mio personale, il mio buon compleanno all’Italia, ma mi è molto piaciuto quello che ha scritto il mio amico Michele Morrocchi; perciò giro il suo augurio anche ai miei lettori.

“Evviva l’Italia. Quella Liberata, quella da liberare. Evviva il nostro Paese, che indice una festa e ci mette tre mesi per decidere se di festa vera si tratti o di mera sottolineatura del calendario. Evviva il Paese che, come per i còrsi in Francia o i baschi in Spagna, quando suona l’inno vede i rappresentanti di quei territori uscire dalle aule. Peccato però che non stiano al governo e non esprimano il ministro dell’Interno. Evviva gli stessi ministri leghisti che come Moretti in Ecce Bombo s’interrogano se si notano di più se vanno o se non vanno alle celebrazioni di questo pomeriggio in parlamento. Evviva Silvio che fu ferito come Garibaldi. Evviva il suo cerottone-lenzuolo degno di un martire risorgimentale. Evviva pure il dibattito sul nucleare, quello sulla giustizia, quello sulla bioetica, il testamento biologico, l’aborto, le canne, la pena di morte e tutto quello di cui si dibatte e di cui poco si fa. Evviva il Paese che evade e quello che produce pagando le tasse. Evviva un Paese che al contrario di tutto e di tutti rimane una delle sette potenze economiche del mondo. Evviva il vincolo esterno per abbassare il rapporto debito Pil. Evviva un paese litigioso, ingegnoso, pieno di umanità e retorica. Evviva i tanti tricolori alle finestre, e quelli agli occhielli delle giacche di ex extraparlamentari di sinistra che trent’anni fa gridavano “uno, cento, mille, Vietnam”. Evviva l’Italia che si celebra e non ricorda, che rimuove il proprio passato coloniale, il ventennio fascista, che rimpiange la DC (anche in quelli che sempre trent’anni fa le auguravano diossina), che fa sfoggio di passato e poi nell’occasione del 150° non apre nessuna seria riflessione storica sul proprio passato e la propria identità. L’Italia dei Santi e soprattutto dei santini, quella che anche quando prega si affida all’intermediario piuttosto che al diretto interessato. Evviva un Paese anziano che però parla e mostra sempre giovani belli atletici e perfetti. Evviva i cervelli in fuga e quelli che, nonostante tutto, restano. Evviva l’Italia e soprattutto viva gli italiani.”

Venti minuti fa, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato la risoluzione n.1973 che autorizza la comunità internazionale ad intervenire per proteggere i civili. E’ un modo per approvare la no-fly zone ed altre misure salvo l’occupazione di terra. 10 i voti favorevoli, 5 le astensioni (Russia, Cina, Brasile, India e Germania). Fra i favorevoli anche le grandi nazioni africane presenti come Sud Africa e Nigeria.

Speriamo davvero che non sia troppo tardi. Gheddafi marcia su Bengasi e minaccia di non avere pietà. Bengasi è comunque in festa dopo il voto di New York, ma si possono già sentire rumori di esplosioni e di artiglieria. Sarà una notte lunga. Saranno giornate lunghe.

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Ultime dal fronte

Stamani è morto un altro militare italiano in Afghanistan, vittima dei cosiddetti “ordigni improvvisati” che esplodono al passaggio dei blindati. Un nuovo dolore per il nostro Paese impegnato da oltre nove anni (oltre quattro di più dell’intera seconda guerra mondiale) in un teatro di guerra ostile e complesso.

L’attenzione del mondo è invece orientata ancora sul Mediterraneo, sulla Libia in particolare. Venerdi scorso, ebbi occasione di una lunga conversazione telefonica con una giornalista che si faceva spiegare le implicazioni tecnico-giuridiche relative alla sospensione de facto o sospensione formale o denuncia del trattato italo-libico. Durante la conversazione – e non perché stanco – le dissi che ritenevo con molta franchezza che la questione sarebbe stata rapidamente superata dagli eventi, che di lì a pochi giorni avremmo piuttosto affrontato il tema delle sanzioni, della legittimazione di un intervento umanitario, della relativa concessione delle basi italiane. E che da lì, la sospensione del trattato sarebbe stato un ricordo.
Ci siamo arrivati in meno di tre giorni: Bengasi ha annunciato al mondo la nascita di un governo rivoluzionario provvisorio, la Casa Bianca ha annunciato aiuti agli insorti ed ha invocato sanzioni, la Ue le ha già decise, le Nazioni Unite hanno denunciato Gheddafi al Tribunale dell’Aja per crimini contro l’umanità, il Colonnello ha incaricato gli 007 libici di negoziare con l’opposizione, il mio amico Gaddur – ambasciatore a Roma – ha mollato e si è unito al nuovo governo.

Appaiono a dir poco antiche le parole pronunciate dal governo italiano sull’amico Gheddafi, sul modello libico di democrazia, gli inviti alla prudenza e alla cautela quando tutto era oramai ampiamente compromesso e cambiato. Ma tant’è. Il Ministro degli Esteri, anche oggi, si è affrettato a dire quanto condivideva la linea della comunità internazionale, quanto l’Italia sarebbe stata al fianco degli altri. Tutto vero, tutto giusto, tutto così poco credibile in quanto figlio di una non politica. Una volta, forse, magari m’illudo, la “linea” sulla Libia l’avremmo data noi; oggi la inseguiamo sul filo delle agenzie di stampa.
Oggi, ancora una volta in ritardo di 24 ore, vale quanto abbiamo detto sulle agenzie di stampa ieri. Se un Paese ha, come capita alla Libia adesso, due governi, uno rivoluzionario a Bengasi, uno asserragliato a Tripoli in un bunker, tocca alla comunità internazionale scegliere chi sia l’interlocutore. E noi dovremmo essere già a Bengasi a parlare con la Libia di domani.

Berlusconi attacca il Quirinale e il suo potere pervasivo, il complotto dei giudici di sinistra e della Corte Costituzionale, un mantra psicotico per invitare alla resistenza estrema. Dicono i sondaggi che la fiducia nei suoi confronti è scesa ancora un altro po’. Penso e spero che sia vero. Ma penso al costo allucinante che la credibilità della politica ha pagato in questi anni. E vorrei che anche Roma, dopo Tripoli, girasse pagina presto.

Un abbraccio grande a Piero Fassino che ha vinto le primarie a Torino e che, con il suo carattere serio e la sua infaticabile tenacia, sarà un eccellente sindaco della sua città.

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Countdown -8: un passo alla volta

La novità è che non ci sono novità. Che il treno della crisi di Berlusconi e del suo governo procede lentamente verso il voto della settimana prossima. Che anche il penultimo finesettimana prima del voto di Montecitorio, semmai, ha fatto registrare qualche ulteriore scambio al peperoncino fra il premier e il presidente della Camera, rendendo sempre più improbabile qualsiasi recupero, umano prima ancora che politico.

Mentre si contano con il pallottoliere i casi bizzarri del calendario (i giorni del parto della mia collega Federica coincidenti esattamente con il voto) o i narcisismi dell’ultim’ora alla ricerca di mezza pagina di intervista da far vedere ai nipoti, la politica tramesta già sul dopo.

Ribadisco la mia opinione. Con un Consiglio Europeo dedicato alle nuove regole del patto di stabilità convocato 24 ore dopo la sfiducia, 120 miliardi di titoli di Stato nelle aste dei prossimi mesi, c’è poco margine per apprendisti stregoni e farfalloni del transatlantico. Una soluzione rigorosa – chiamatela istituzionale, tregua o anche Pippo – affidata alla saggezza del Capo dello Stato, che faccia posare la polvere, calmare i toni, abbassare la voce, riorganizzare i campi è ciò che serve. Ed è l’unica soluzione intermedia fra gli eventuali desideri di ribaltone (comunque negati anche oggi da Fini) e i governi fotocopia affidati alle fotocopie di Berlusconi.

Tanto più che le notizie drammatiche della cronaca – mi riferisco al rapimento/omicidio della piccola Yara o alla strage di ciclisti in Calabria – sono lì, pronte altrimenti a innescare una santabarbara di argomenti ghiotti per la cattiva politica, nonostante le parole di straordinario equilibrio dei familiari coinvolti.

Domani volo oltreoceano per la riunione annuale del Consiglio Italia – Stati Uniti.
Sono sinceramente curioso di testare personalmente un po’ di amici sulle conseguenze del ciclone Wikileaks. Inoltre al Consiglio quest’anno partecipano ospiti decisamente importanti, soprattutto interessanti da ascoltare – specie se a porte chiuse – in questa fase della vita del Paese: fra questi, Mario Draghi, Sergio Marchionne, Emma Marcegaglia.

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