L’iniziativa palestinese per il riconoscimento del proprio Stato da parte delle Nazioni Unite, dove a settembre verrà probabilmente presentata una risoluzione al riguardo, è una mossa disperata, figlia dello stallo negoziale, o un abile scacco al re israeliano?
Ogni giro di colloqui con i protagonisti di questa terra tormentata – siano essi i vertici istituzionali o i gruppi negoziali che da vent’anni si incontrano in varie località del mondo – lascia sempre la stessa impressione. Che cioè la diplomazia e il buon senso abbiano trovato da tempo la soluzione al 90% delle questioni sul tavolo: i confini da prendere a riferimento come base del negoziato, gli scambi territoriali necessari, la gestione razionale delle fonti d’acqua, un equilibrio possibile per gestire il diritto al ritorno dei rifugiati fra affermazione del principio e sua realistica applicazione, perfino la condivisione di Gerusalemme, capitale spirituale e politica per due popoli, ma città santa per tre religioni.
Gioco dell’oca
Ciò che manca sempre, si direbbe in gergo, è la volontà politica. L’innesco che permette di risedersi al tavolo e cercare finalmente l’accordo per quella che un dirigente libanese mi definisce come “madre di tutti i problemi e chiave di tutte le soluzioni dell’area”.
Quando Israele sembrava più aperta al compromesso, i palestinesi guidati da Yasser Arafat non sembravano pronti a chiudere l’intesa; quando questi ultimi erano drammaticamente lacerati fra Fatah e Hamas, Israele non riconosceva legittimità reale alla controparte di Ramallah; ora che le due fazioni hanno negoziato un accordo di riconciliazione che mette l’intero mandato nelle mani del presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Abu Mazen, manca il preliminare riconoscimento di Israele, che implicherebbe l’abdicazione politica da parte di Hamas.
Nasce sicuramente da qui, da questo inconcludente gioco dell’oca, la mossa di Abu Mazen di coinvolgere direttamente le Nazioni Unite, di chiedere all’Assemblea generale e al Consiglio di sicurezza quel riconoscimento che – sottolineano i dirigenti palestinesi – altrettanto unilateralmente segnò la nascita di Israele (e prima ancora, in altro contesto, anche quella degli Stati Uniti). È una scommessa che, secondo calcoli non contestati, può già fruttare ad oggi 120 voti favorevoli in Assemblea, anche se da Ramallah si fa sapere che si spera di arrivare persino a 150.
Un successo diplomatico che permetterebbe di guadagnare comunque, anche in caso di veto americano, lo status di paese osservatore presso l’Onu, con il diritto così di adire tutte le sedi e i contesti multilaterali, incluso il Tribunale penale internazionale. Sono lontani i tempi in cui Arafat interveniva alla tribuna di New York con in mano il ramoscello d’ulivo e il mitragliatore, chiedendo alla comunità internazionale di assumersi le proprie responsabilità. Abu Mazen taglierebbe questo traguardo nel pieno rispetto del diritto internazionale. Anzi nella più autorevole delle sedi multilaterali, guadagnando così anche in simpatia nella più vasta opinione pubblica.
Anno elettorale
Ma anche Ramallah sa che le decisioni delle Nazioni Unite non influenzano l’opinione pubblica israeliana, che anzi considera la scarsa comprensione internazionale delle proprie particolari condizioni come una sorta di accanimento politico. L’isolamento diplomatico di Israele, inoltre, renderebbe forse perfino più forte alle prossime elezioni l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu. Da qui la richiesta e la disponibilità palestinese a riavviare il negoziato bilaterale, anche alla luce dei recenti successi economici conseguiti dal primo ministro palestinese Salam Fayyad, come la crescita della Cisgiordania e la vitalità di una terra definita auto-ironicamente “una occupazione a cinque stelle”.
Il primo ministro israeliano ha chiuso finora ogni spiraglio negoziale, forte dei 55 applausi tributatigli dal Congresso americano e dal veto a denti stretti che l’amministrazione americana gli offrirà alle Nazioni Unite, quale ultimo tributo di amicizia in un anno elettorale.
Questo arroccamento impedisce però a Tel Aviv di valutare fino in fondo gli smottamenti che stanno trasformando il quadro regionale: la Turchia in allontanamento, l’amica-nemica Siria in caduta libera, il Libano in difficoltà e, infine, l’Egitto, nel quale i partiti faranno campagna elettorale parlando anche della Palestina e che nel frattempo ha aperto la frontiera con la striscia di Gaza, vanificando molte delle preoccupazioni israeliane.
Nel medio periodo, per altro, la politica israeliana non è in grado di frenare o arrestare il trend demografico che vede crescere la componente palestinese che vive nelle zone occupate e che la raccogliticcia immigrazione russa non compensa minimamente né in termini di quantità, né di identità.
Anche recentemente il premier israeliano si è detto pronto a riconoscere lo Stato di Palestina, se il presidente palestinese riconoscerà simultaneamente lo “Stato nazionale ebraico”: uno Stato dove gli arabi avranno pieni diritti, ma rinunceranno ad ogni ulteriore rivendicazione. È un ostacolo strumentale che confonde politica e religione, sostiene Abu Mazen mostrando la fotocopia di una nota vergata a mano dal presidente americano Truman nel 1948, che autorizzava il voto americano alle Nazioni Unite in favore del riconoscimento dello Stato di Israele: l’intervento autografo di Truman cancellava il termine “Stato nazionale ebraico” dal testo. Se pensano di esorcizzare il futuro tornando ad un dilemma già risolto dalla Casa Bianca nel 1948, conclude Abu Mazen, provino prima a convincere il presidente americano Barack Obama.
Scelta dell’Italia
A forza di guardare gli eterni duellanti, da ultimo, si rischia di non rendersi conto che dal lato dei sicuri perdenti ci sono sia Stati Uniti sia Unione europea. Entrambi, da soli o nel Quartetto, non sono riusciti ad esercitare una pressione convincente per riportare le parti al negoziato diretto. E anche il recente incontro di Washington si è concluso con un balbettante nulla di fatto.
Così, se la questione venisse affrontata nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, sarebbe altamente probabile una lacerazione secca fra americani ed europei presenti in quella sede; se invece essa giungesse in Assemblea generale, ci sarebbe l’alto rischio che gli stati membri dell’Unione si dividerebbero esprimendo tutte e tre le opzioni di voto: il sì, l’astensione e perfino il no.
Anche se settembre sembra ancora lontano, inoltre, è indispensabile che l’Italia voti, dopo aver cercato il raccordo in sede Ue, tenendo conto della sua storia mediterranea e della sensibilità diffusa dell’intero paese e non della sola maggioranza che pro-tempore la governa. Un voto che ambisse a segnare uno scarto rispetto all’Europa, a marcare un’amicizia speciale con Tel Aviv, a cercare un’approvazione americana – oggi, per altro, nemmeno richiesta perché non necessaria – e che rinunciasse a quell’equilibrio che ha permesso al paese, in anni ben più difficili, di favorire il dialogo fra le parti, costituirebbe un grave errore politico.
Una simile scelta lacererebbe infatti una sensibilità nazionale assai vasta , che ha sempre fondato il sostegno al principio “due popoli, due Stati” sul riconoscimento del diritto di Israele a vivere in pace e in sicurezza e sul simultaneo riconoscimento del diritto dei Palestinesi ad avere un proprio Stato. Si tratterebbe inoltre di un chiaro passo falso davanti al rinnovamento in corso dell’opinione pubblica araba. Quest’ultima voterà prossimamente giudicando i suoi leader anche su questo tema. È dunque lecito aspettarsi dall’Italia una linea improntata all’equilibrio e al dialogo.
Lapo Pistelli è responsabile affari esteri e relazioni internazionali del Partito Democratico.
Pubblicata su Affari Internazionali, newsletter dello IAI