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L’Italia al rovescio

Se un tedesco volasse verso Sud, dotato di un gigantesco grandangolo, attraversando le Alpi e guardando verso il Mare Mediterraneo, il nostro Paese gli apparirebbe più o meno così come lo potete vedere da questa antica stampa. Un ponte su un lago, una protesi di terra che si tende verso l’Africa e alla quale si arriva saltellando su un grande scoglio, la Sicilia, e poi con un ultimo balzo su un sasso che spunta lì vicino, Lampedusa, fino alla meta finale, la Libia.

La carta geografica è sempre la stessa, ma vista al rovescio e con un po’ di effetto tridimensionale fa un certo effetto.
A chi mi chiede perché l’Italia è impegnata in Libia, vorrei mostrare questa stampa. Sulla sinistra i Balcani, davanti a noi l’Africa. Questo è il giardino di casa, dove non possiamo non essere, dove il mondo si aspetta che siamo. Il resto è opzionale, Afghanistan incluso; è un tributo alle nostre alleanze, alle nostre fedeltà tradizionali.
Due secoli fa avrei spinto a guardare anche la parte bassa della carta, dove ci sono le montagne, le Alpi, il nostro confine naturale. Un confine che non impedì ad Annibale di prendere Roma di sorpresa con i 37 elefanti sopravvissuti ad una traversata che ebbe del leggendario, via Spagna e Francia, e che non ha impedito a francesi, austriaci ed altri di compiere scorrerie per secoli nel nostro Paese. Fino a che non abbiamo fatto l’Europa assieme, e quel confine ha smesso di essere una minaccia possibile.

C’è poco entusiasmo verso le missioni internazionali. L’uomo comune si difende dal mondo che irrompe in casa: 4 giorni di apocalisse atomica in Giappone, poi la guerra in Africa, poi le rivolte in Medio Oriente, nel frattempo un paio di manifestazioni per la Costituzione, contro il nucleare e per l’acqua, per la giustizia giusta e, per finire, un Governo che gratta le paure, che evoca rischi di fondamentalismo o di invasioni bibliche. C’è una barriera psicologica che ci crea un limite naturale all’assorbimento dei disagi del mondo.

E c’è l’incertezza sulle finalità della missione. Siamo lì per fermare le violenze sui civili ma siamo lì anche per mandare via Gheddafi, perché ogni ritorno sarebbe l’inizio di una terribile vendetta.

E c’è il rimprovero di doppiopesismo. Perché siamo lì e non anche in altre parti del mondo dove i diritti sono conculcati ? Ha ragione però Vittorio Zucconi quando dice che sarebbe un alibi non curare una malattia sostenendo che intanto nel mondo ce ne sono altre dieci che nessuno debella. E ha ragione chi dice che se non fossimo andati lì, gli stessi pacifisti critici di oggi ci avrebbero detto che non andavamo perché ci tornava comodo un dittatore che garantiva i contratti petroliferi.

Eppure dobbiamo essere lì. Nonostante il Governo che nicchia. Nonostante la Lega e i barconi. Nonostante le gomitate dei francesi. Nonostante siamo andati da molte parti negli ultimi anni non sapendo poi come andare via.

Se Gheddafi retrocede e i ribelli avanzano, questa è una buona notizia. Se sono cessati i bombardamenti e i carri armati restano carbonizzati nel deserto è un bene. La guerra non è iniziata sei giorni fa; era iniziata due settimane prima ed è stato solo il nostro ritardo a renderla oggi più lunga.

Martedi ci sarà la conferenza di Londra per raccordare i suoni sull’endgame. Intanto il domino è passato in un Paese che conta parecchio, per ieri, per oggi e per domani, la Siria. Dopo la fibrillazione della Giordania e la caduta dell’Egitto, si tratta del terzo protagonista che insiste direttamente sul conflitto israelo-palestinese e sul suo destino.
La partita è ben lontana dalla sua fine.

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Il dovere di essere chiari

Anche il conflitto libico non è sfuggito finora alla regola delle crisi contemporanee che vedono nell’informazione, nelle parole e nelle immagini, un teatro non secondario di battaglia. E’ per questo che vorrei tentare di rimettere in fila brevemente i pezzi del mosaico degli ultimi giorni.

Con un colpo di coda assolutamente inatteso, le Nazioni Unite hanno approvato giovedi scorso la risoluzione 1973 che chiama gli Stati membri, come singoli o tramite le organizzazioni regionali, a mettere in atto una serie di misure coercitive per assicurare la protezione dei civili dalla minacce provenienti dal regime di Tripoli. Su quella risoluzione si sono astenuti due membri permanenti (che avrebbero potuto usare il loro potere di veto) come Russia e Cina e si sono astenuti anche India Brasile e Germania (dando prova, a mio avviso, nonostante il grande potere economico di scarsa attitudine ad assumersi responsabilità di governance mondiale); d’altro canto, a conferma che non si tratta di un’opinione politica dell’ “Occidente” hanno votato a favore paesi come la Colombia o come le due più grandi potenze africane, Sud Africa e Nigeria.
La risoluzione è più dura nei mezzi coercitivi richiesti alla comunità internazionale ma pare perfino più morbida della precedente (la 1970) che non dicendo alcunché sui mezzi coercitivi aveva un giudizio politico ancora più severo, rendendo implicita la richiesta di “regime change” a Tripoli.

Nel fine settimana, ciascuno secondo le proprie regole costituzionali, numerosi Paesi hanno dato disco verde ai rispettivi governi per la partecipazione alla coalizione internazionale.
In Italia, seguendo una prassi che ha un solo precedente – la missione Unifil in Libano deliberata a Parlamento chiuso in agosto – sono state le commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato a votare l’intervento, chiarendo fin da venerdi scorso che quel voto sarebbe stato confortato da un voto del plenum del Parlamento appena possibile, cioè questa settimana.

Il Capo dello Stato – che ha oramai assunto una centralità straordinaria per tutte le vicende rilevanti della vita pubblica nazionale – ha ripetuto durante il fine settimana, davanti alle prime immagini della contraerea o delle vittime in strada – che l’Italia stava agendo per implementare una decisione Onu, in modo da evitare o da limitare al massimo che si aprisse la querelle impropria sull’articolo 11 e sul ripudio della guerra sancito dalla nostra Costituzione.

Ogni intervento militare, infatti, nel linguaggio comune, può essere assimilato o riassunto nel termine “guerra”, ma se l’intervento ha i canoni della giustezza e della legittimità internazionale, è improprio usare quella parola come giudizio morale implicito di condanna. Se un cittadino compie un reato e un tribunale legittimo emette una sentenza, i carabinieri o la polizia lo assicurano alle patrie galere; se uno Stato è punito dalla comunità internazionale per crimini di guerra o per altre gravi violazioni, tocca agli altri Stati compiere la funzione dei carabinieri o della polizia.
E’ sicuramente vero che non tutti i comportamenti gravi degli Stati vengono sempre colpiti o colpiti con la stessa durezza, come del resto capita in ogni ordinamento giudiziario nazionale (con i suoi errori e i suoi accanimenti), ma questo non toglie che quando un regime ha provocato la comunità internazionale con ogni mezzo, quella incompletezza possa essere usata come alibi per l’inerzia.

Il conflitto sul campo andrà seguito passo passo. I primi raid hanno consentito a Bengasi di respirare, di recuperare terreno, hanno spinto Gheddafi ad annunciare (per ora solo annunciare) un cessate il fuoco. E’ vero che hanno anche reso più prudente la Lega Araba che pure aveva chiesto l’intervento e che hanno permesso a Putin di alzare il dito ammonitore. Considero tutto questo un gioco delle parti della politica internazionale, di cui tenere conto ma davanti al quale non paralizzarsi.
Vedremo invece se la Nato assumerà un ruolo più organico nella definizione del quadro di comando. Ad oggi è vero che essa ha reso disponibili alcune infrastrutture tecnologiche per l’efficacia degli interventi ma che non esiste un definito quadro di comando. E’ questo che spiega – davanti all’abitudine (Serbia, Bosnia, Kosovo, Afghanistan ecc.) di avere un intervento affidato ad una organizzazione regionale – la sensazione di una coalizione che nei primi giorni privilegia il fai-da-te. Tutte le sensazioni sono legittime ma credo di poter assicurare che la regola vigente non è certo il fai-da-te; è vero invece che sarebbe difficile dar vita ad una coalizione Nato con Paesi come i partner arabi, che si sono resi disponibili, sottoposti alle linee di comando dell’alleanza.

Credo invece che sia indispensabile che il governo venga in Aula mercoledi a prendere il voto del Parlamento, che ci venga con Silvio Berlusconi, che cessi cioè il gioco delle tre carte con Frattini e La Russa a fare da centravanti, Bossi a criticare la partecipazione in Libia e Berlusconi un po’ di qua e un po’ di là. Se il governo non avesse una propria maggioranza in politica estera, sarebbe inevitabile la richiesta di dimissioni.

Un’ultima postilla: l’attenzione sulla Libia ha spostato alle pagine interne l’apocalisse giapponese e ha ridotto a trafiletti le sommosse di piazza che proseguono in Bahrein, in Yemen così come il referendum costituzionale egiziano.
Occhi aperti. L’informazione, per mestiere, amplifica, sceneggia, retrosceneggia, comprime, dilata, ma l’importanza oggettiva di quei fatti rimane. Anche se a pagina 21.

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150 in Italia, 10 a 5 a New York

E’ stata una giornata importante, brutta solo nel tempo atmosferico, bella per la politica, la memoria, il futuro. Il Presidente Napolitano ha rivolto al Parlamento un discorso molto ricco e colto, una riflessione alta sulla storia di questi 150 anni, sulle sfide che ci riguardano, sull’equilibrio di questa comunità.

Non ho avuto tempo di scrivere un pezzo mio personale, il mio buon compleanno all’Italia, ma mi è molto piaciuto quello che ha scritto il mio amico Michele Morrocchi; perciò giro il suo augurio anche ai miei lettori.

“Evviva l’Italia. Quella Liberata, quella da liberare. Evviva il nostro Paese, che indice una festa e ci mette tre mesi per decidere se di festa vera si tratti o di mera sottolineatura del calendario. Evviva il Paese che, come per i còrsi in Francia o i baschi in Spagna, quando suona l’inno vede i rappresentanti di quei territori uscire dalle aule. Peccato però che non stiano al governo e non esprimano il ministro dell’Interno. Evviva gli stessi ministri leghisti che come Moretti in Ecce Bombo s’interrogano se si notano di più se vanno o se non vanno alle celebrazioni di questo pomeriggio in parlamento. Evviva Silvio che fu ferito come Garibaldi. Evviva il suo cerottone-lenzuolo degno di un martire risorgimentale. Evviva pure il dibattito sul nucleare, quello sulla giustizia, quello sulla bioetica, il testamento biologico, l’aborto, le canne, la pena di morte e tutto quello di cui si dibatte e di cui poco si fa. Evviva il Paese che evade e quello che produce pagando le tasse. Evviva un Paese che al contrario di tutto e di tutti rimane una delle sette potenze economiche del mondo. Evviva il vincolo esterno per abbassare il rapporto debito Pil. Evviva un paese litigioso, ingegnoso, pieno di umanità e retorica. Evviva i tanti tricolori alle finestre, e quelli agli occhielli delle giacche di ex extraparlamentari di sinistra che trent’anni fa gridavano “uno, cento, mille, Vietnam”. Evviva l’Italia che si celebra e non ricorda, che rimuove il proprio passato coloniale, il ventennio fascista, che rimpiange la DC (anche in quelli che sempre trent’anni fa le auguravano diossina), che fa sfoggio di passato e poi nell’occasione del 150° non apre nessuna seria riflessione storica sul proprio passato e la propria identità. L’Italia dei Santi e soprattutto dei santini, quella che anche quando prega si affida all’intermediario piuttosto che al diretto interessato. Evviva un Paese anziano che però parla e mostra sempre giovani belli atletici e perfetti. Evviva i cervelli in fuga e quelli che, nonostante tutto, restano. Evviva l’Italia e soprattutto viva gli italiani.”

Venti minuti fa, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato la risoluzione n.1973 che autorizza la comunità internazionale ad intervenire per proteggere i civili. E’ un modo per approvare la no-fly zone ed altre misure salvo l’occupazione di terra. 10 i voti favorevoli, 5 le astensioni (Russia, Cina, Brasile, India e Germania). Fra i favorevoli anche le grandi nazioni africane presenti come Sud Africa e Nigeria.

Speriamo davvero che non sia troppo tardi. Gheddafi marcia su Bengasi e minaccia di non avere pietà. Bengasi è comunque in festa dopo il voto di New York, ma si possono già sentire rumori di esplosioni e di artiglieria. Sarà una notte lunga. Saranno giornate lunghe.

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Sipario

Alla riconquista della Cirenaica mancano solo ormai Tobruk e Bengasi. Non è in discussione il se ma solo il quando e il come, ovvero il prezzo in vite umane che tutto ciò comporterà.

Gheddafi ha riconquistato la scena, militare e politica. La “comunità internazionale” esce invece di scena fra i fischi degli spettatori che sono rimasti attenti a ciò che accadeva mentre gli altri si sintonizzavano legittimamente sulla tragedia dell’Estremo Oriente.

Nella giornata di ieri, il G8 si è chiuso con un nulla di fatto, cioè con la non menzione della no-fly zone (oramai inattuale vista la situazione sul campo) e la recisa opposizione tedesca; a New York si continua a discutere su una risoluzione che forse vedrà la luce la prossima settimana; la Francia che voleva riconoscere il Consiglio di Bengasi come governo libico e si proponeva di bombardare Tripoli da sola o in compagnia si è letteralmente liquefatta dicendo laconicamente in conferenza stampa che “si riconoscono gli Stati non i governi”; la Cina è pronta a riportare i suoi 36.000 operai evacuati durante la crisi nei cantieri che attendono il disco verde della ripartenza.
Due giorni fa avevo scritto che si preannunciava la vittoria della real politik sulla speranza delle piazze arabe. Oggi possiamo dire purtroppo qualcosa di più.

L’Europa è ancora una volta nuda di fronte a se stessa. Ha sperato che, anche nel Mediterraneo, fossero gli Stati Uniti a levare le castagne dal fuoco, ad assumere in prima persona una iniziativa cui accodarsi nel quadro di un ritrovato multilateralismo. Ma la Casa Bianca, disponibile ad ogni azione, ha ricordato che il Mediterraneo è il giardino di casa nostra e che toccava agli europei decidere e a loro accodarsi e semmai sostenere. Così alla domanda “chi è pronto a muoversi?”, “chi mette gli aerei ?”, “cosa bisogna colpire ?” è seguita la commedia farsesca “vai avanti te che a me scappa da ridere”. La tragedia giapponese ha fatto il resto. Come democratici abbiamo criticato le coalizioni dei volonterosi dell’epoca di Bush in nome del multilateralismo, ma questo diverso metodo impegna comunque i singoli membri della comunità ad assumere la responsabilità, a condividere il carico (il cosiddetto burden sharing).

Questo messaggio, ovviamente, è arrivato e arriverà alle altre piazze arabe in fermento. Sorpresi forse dall’escalation verbale della diplomazia (sanzioni, embargo, no fly zone ecc), i giovani avranno capito che le parole della politica non vanno prese sul serio nemmeno quando sono pronunciate da paludati ministri degli Esteri. Meno sorpresi e più sollevati saranno invece quei regimi autocratici che, da oggi, sanno di poter usare la mano più pesante verso chi contesta il potere. Il precedente libico pesa molto.

E’ oggettivo che anche un Gheddafi vincitore nel sangue non sarà mai il Gheddafi di ieri. O meglio, è plausibile che il Colonnello si reincarni nel Gheddafi di ieri l’altro, quel paria della comunità internazionale iscritto nella black list degli Stati canaglia fino alla fine degli anni 90. Sospeso dalla Lega Araba, espulso dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, impossibilitato (se almeno fino a lì la comunità regge la posizione) ad usare i propri beni congelati all’estero, impedito dalle sanzioni a sviluppare il proprio business, Gheddafi tornerà ad essere quell’elemento di destabilizzazione che ne ha caratterizzato il lungo percorso.

Sullo sfondo di tutto, in filigrana, giganteggia il dilemma che poco meno di venti anni fa Clinton poneva alla comunità internazionale inventando la categoria dell’ “intervento umanitario”: quale è il confine fra la tutela dei diritti umani in un caso di flagrante violazione e il principio di non ingerenza negli affari interni di un Paese ? quali requisiti occorrono affinché uno o più Paesi possano assumere legittimamente il ruolo del poliziotto buono negli affari del mondo ?

Ho cercato parole per esprimere il groviglio di sensazioni che mi suscita la vicenda giapponese. Non ne ho trovate di adeguate. Le due cose che mi hanno colpito di più sono comunque l’ammirevole compostezza di quel popolo davanti alla catastrofe (e una volta tanto la parola non è inutilmente enfatica ma la descrizione di una realtà) e il tragico fato che intreccia il Giappone al potere atomico.

Per sorridere da ultimo, se possibile, segnalo il paradosso italiano fotografato da un’impareggiabile vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera di oggi. Ogni Paese europeo si interroga sulla propria sicurezza nucleare, sospende la costruzione di centrali, verifica quelle in uso; il nostro Governo annuncia fieramente che non farà marcia indietro. Già ma da che cosa ? Siamo il solo Paese nucleare senza esserlo, senza un progetto, senza un sito prescelto, senza un consenso, senza un quattrino, ma possiamo stare tranquilli perché andiamo avanti.

Il teatro berlusconiano è l’unico teatro che non chiude mai.

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