[articolo pubblicato sul n° 13/2012 di Tamtàm Democratico: "Gli USA di Obama secondo"]
Secondo una convenzione diffusa, il Presidente americano spende il suo primo mandato per assicurarsi la rielezione e solo nei quattro anni successivi si dedica a realizzare la propria agenda, con una preferenza per quei dossier internazionali che gli possono garantire uno spazio nei libri di storia. Con tutte le semplificazioni del caso, c’è del vero in questa affermazione, ma dato che viviamo tempi di straordinario cambiamento, anche questa regola è mutata nella storia dei due mandati di Barack Obama. A partire dal primo.
Complice la disastrosa eredità di George W. Bush – il Presidente con il più basso tasso di gradimento domestico e internazionale degli ultimi sessanta anni – il giovane senatore afro-americano dedicò, fin dalla campagna primaria per la scelta dello sfidante democratico, uno spazio importante ai temi esteri. Per un Paese che contava ogni giorno i propri caduti sul fronte iracheno e che aveva dimostrato un’arrogante impreparazione nel tentativo di riscrivere la mappa del grande Medioriente sotto le suggestioni neo-conservatrici, hope and change furono parole da declinare anche in una nuova visione del mondo e in una diversa gestione dei rapporti con i Paesi alleati.
Da candidato prima, da Presidente poi, Barack Obama è stato la gioia di ogni internazionalista democratico. L’elenco è lungo e perciò ci limitiamo ai titoli: tour europeo con discorsi evocativi di grande impatto a Berlino e a Londra, un nuovo impegno sulla non proliferazione nucleare e sulla tutela dei diritti umani, l’offerta di un reset con Mosca e di un impegno costruttivo con l’Iran, una diversa consapevolezza dei problemi del cambiamento climatico, l’apertura al mondo islamico nel discorso del Cairo dopo un decennio di pregiudizi e paure.
Affiancato da uno straordinario Segretario di Stato come Hillary Clinton, il giovane Presidente è stato la prima personalità del mondo politico a guadagnarsi un Premio Nobel per la Pace “preventivo”, sulla sola base cioè dell’agenda presentata al mondo e dei primi passi compiuti dopo l’elezione. Come sappiamo oggi, tuttavia, quell’elenco di impegni e intenzioni, tutte giuste e condivisibili, era probabilmente troppo ambizioso, e soprattutto – proprio grazie alla inedita offerta di responsabilizzazione e coinvolgimento di alleati e avversari – dipendeva in misura equivalente dalla volontà americana e dalla risposta altrui. Il caso russo e quello iraniano testimoniano di una mano tesa cui si è risposto più volentieri con un pugno chiuso.
Il Presidente che ha combattuto per ottenere un secondo mandato è stato sicuramente più cauto, si è limitato a chiedere agli elettori di poter completare ciò che aveva iniziato, non aggiungendo però nuovi fronti al suo impegno.
Poteva contare, in questo silenzioso “downgrading”, sul totale vuoto repubblicano. Ancora gravato dall’ipoteca di Bush e semmai appesantito ulteriormente dalle bizze isolazioniste del Tea-Party, Mitt Romney si è tenuto scrupolosamente alla larga dalle questioni internazionali. Anche il dibattito televisivo tradizionalmente dedicato all’America nel mondo fu privo di colpi di scena: lo sfidante si limitava a invocare toni più assertivi e decisi verso gli avversari di sempre (Russia e Cina) ma senza una visione alternativa. Anzi, poche settimane prima, il tentativo di capitalizzare elettoralmente i fatti di Bengasi e la morte dell’Ambasciatore Stevens era stato subito stigmatizzato da tutti i media americani, che vi leggevano una rottura dell’unità nazionale in un momento di cordoglio collettivo.
Perché allora Barack Obama, così amato in tutto il mondo e così condiviso nelle proprie idee sull’agenda internazionale, dovrebbe concentrare maggiormente il suo secondo mandato sulla politica interna? Il Presidente ha rischiato di perdere la Casa Bianca per la modesta performance dell’economia e per il pessimo andamento dell’occupazione. È stato il primo Presidente uscente della storia a essere riconfermato con un tasso di disoccupazione vicino all’8%, in genere insopportabile per l’elettorato americano. Sicuramente lo sfidante non è mai riuscito a vendere in quel campo un profilo credibile, alternativo all’immagine percepita del freddo speculatore finanziario, insensibile alla parte povera della società, contribuente modesto con ingenti ricchezze all’estero, più a suo agio nel tagliare posti di lavoro con le ristrutturazioni industriali gestite dalla sua Bain Capital.
Se però il Congresso non raggiungerà in poche settimane un accordo sul bilancio, l’America cadrà nel cosiddetto “fiscal cliff”, il baratro fiscale che produrrà tagli automatici ai servizi e alle spese della pubblica amministrazione, un gigantesco “taglio lineare” sostanziale, segno della difficoltà politica di prendere decisioni condivise. Comunque avvenga il ridimensionamento del bilancio – per scelta o per “caduta” nel baratro – esso colpirà in modo rilevante la componente militare e la proiezione esterna del Paese, giudicata dalla gran parte degli elettori come un pedaggio eccessivo al ruolo di guardiano globale, che gli altri attori internazionali conferiscono volentieri a Washington, potendosi dedicare così maggiormente alla propria condizione domestica.
Ridotta in quantità, l’America nel mondo orienterà comunque anche le proprie priorità in direzioni diverse. Innanzitutto proseguirà quella progressiva curvatura verso l’Asia e il Pacifico – ciò che noi europei definiamo Estremo Oriente col nostro modo di guardare al mondo, ma che per gli americani è ben più vicino e, oltretutto, si posiziona a Occidente della propria centralità. Dal discorso di Obama a Canberra, due anni fa, dove per la prima volta fu affermata esplicitamente la nuova priorità del Pacifico rispetto all’Atlantico, l’amministrazione ha rafforzato le relazioni con vecchi e nuovi protagonisti (Giappone, India, Indonesia, Malesia e anche Birmania) costruendo una politica di soft containment verso la Cina.
Nei confronti di Pechino, partner economico e commerciale, banchiere e finanziatore ma anche probabile competitore di questo secolo, Washington dovrà modulare i propri passi, cercando di scoprire le linee guida della nuova generazione di dirigenti eletti al XVIII Congresso del PCC. Se, infatti, è vero che il nuovo leader Xi Jinping era apparso ai più come un uomo aperto e consapevole degli squilibri del modello economico e sociale cinese, come una personalità innovativa, l’elezione a sorpresa durante il Congresso di molti dirigenti legati all’ala più conservatrice getta un’ombra sulla coerenza del ricambio, lungamente coltivato da Hu Jintao e Wen Jabao.
L’amministrazione Obama proseguirà parimenti la strategia di graduale ridimensionamento della propria presenza in Medioriente. Se fino a ieri questa regione era indispensabile per ragioni energetiche, oggi si pone la possibilità di un alleggerimento, dato che in soli cinque anni gli Stati Uniti hanno ridotto la propria dipendenza energetica dal 60 al 42%, sono divenuti esportatori di punta di prodotti raffinati e perseguono con decisione l’obiettivo dell’autosufficienza contando sulle possibilità offerte dal gas di roccia, più in generale dall’unconventional gas.
In un mondo che offre nuove possibilità in Asia, in America Latina, nel bacino del Caspio, il Medioriente appare troppo complicato da seguire e da puntellare politicamente e perciò molto costoso in termini di politiche e di risorse. I processi della primavera araba hanno già impegnato duramente l’amministrazione, lacerata in un faticoso percorso di contenimento delle incoerenze fra principi e interessi, fra la retorica politica sul valore della democrazia e il sostegno alle petro-monarchie sunnite del Golfo.
Ovviamente, un’agenda più concentrata a mettere ordine in casa, reindirizzata semmai verso il Pacifico e meno ossessionata dal dover fare ovunque la differenza, potrebbe essere comunque richiamata dal disordine che regna in ogni fase di transizione multipolare. Se, ad esempio, la Russia proseguisse nella propria traiettoria involutiva, qualche altra transizione araba degenerasse in conflitto aperto, lo scontro fra Israele e Iran passasse dalle parole ai fatti, sarebbe comunque impossibile per Barack Obama girarsi dall’altra parte. A malincuore, la “potenza indispensabile” – secondo la definizione di Madeleine Albright dovrebbe comunque esercitare il proprio ruolo.
Se invece così non fosse (e in fondo è meglio per tutti), Barack Obama si concentrerà su un’agenda anti-recessiva, finalizzata a una nuova stagione di crescita economica per il suo Paese. È questa la prima richiesta che viene dalle grandi minoranze etniche che lo hanno sostenuto – i latinos, gli asiatici, i neri – un paesaggio sociale profondamente mutato, democratico e progressista, sensibile alle battaglie sui nuovi diritti civili, centrato sulla coesione sociale e sullo spirito di comunità, ma meno sensibile di una volta ai grandi ideali wilsoniani sulla comunità internazionale.
Barack Obama proseguirà invece la propria battaglia sul tema dei cambiamenti climatici globali: l’intreccio fra agenda energetica del Paese, possibilità di crescita di un’economia verde, ripetizione eccessiva di fenomeni metereologici eccezionali con danni spaventosi, rendono questo tema un incrocio interessante fra politica interna e internazionale e sollecitano le corde di una sensibilità popolare in forte aumento.
Meno America nel mondo (anche se gradualmente), meno America nelle regioni a noi vicine comporta automaticamente più spazio, più responsabilità, perfino obbligata, per l’Europa. Quale sarà, dunque, l’agenda dell’Europa, nel 2013 e all’indomani delle prossime elezioni europee del 2014? Sarà all’altezza di un’inedita stagione di multipolarismo? Questo è però un altro argomento. E dunque è meglio fermarsi qui.