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Primavere arabe due anni dopo

Primavere arabe due anni dopo

Articolo pubblicato il 25.10.2012 su ItalianiEuropei online

Tra gli studiosi delle relazioni internazionali, l’opinione di coloro che appartengono alla cosiddetta scuola realista è spesso tenuta in eccessiva considerazione. Essi sanno bene che il dottore che promette la guarigione e perde il paziente è considerato un assassino, mentre quello che scuote la testa, anche davanti a un raffreddore, e poi riesce a curare la malattia, è trattato come un eroe. Così, essi tendono a scommettere sullo scenario peggiore. Se si realizza, si dirà che si era pronosticato. Se le cose volgono al bello, nessuno se ne ricorderà.

Le primavere hanno toccato solo parte del mondo arabo e, in pochi casi finora, la loro transizione ha già raggiunto traguardi consolidati. Molti sono i problemi sul tappeto, grande è ancora il disordine. Sarebbe facile scommettere sullo scenario peggiore.

È un po’ la lettura che sta tornando in auge sui media occidentali, concentrati sulla tragedia siriana, sugli attentati che qua e là incendiano il Medio Oriente, in Libia o in Libano, ma più restii a cogliere la trama di fondo che ha costituito la grande novità delle primavere di due anni fa.

Si badi bene: nessuno può sottovalutare i rischi del meltdown di Damasco, i vuoti che si aprirebbero in Mashreq così come sarebbe sciocco ritenere che le buone elezioni libiche del luglio scorso hanno risolto i problemi di sicurezza del territorio e di smilitarizzazione delle milizie. Quello che si intende sottolineare è che rischia di perdersi gradualmente quella consapevolezza, che era emersa poco tempo fa, dei cambiamenti profondi del mondo arabo, dei mutamenti strategici capaci di superare ogni incertezza tattica, ogni arretramento temporaneo.

C’è una generazione nuova che vive per la prima volta il fenomeno dell’empowerment, che ha metabolizzato che il cambiamento è possibile, che il futuro non appartiene ad altri. Così facendo, essa ha rotto un’abitudine inerziale alla tradizione e agli assetti gerarchici del vecchio mondo arabo. Prima l’Europa mediterranea ingaggia questa generazione a vari livelli – partiti, sindacati, media, ordini professionali, piccola e media imprenditoria, università – e più duraturi saranno i nostri vantaggi reciproci.

C’è un Islam politico – un mondo che non ha mai conosciuto la separazione fra Stato e Chiesa inaugurata in Europa con la pace di Westfalia – che affronta dinamiche e tensioni inedite fra minoranze armate e irrispettose della regola democratica e maggioranze che si sono assunte responsabilità politiche e civili senza nascondersi nelle moschee o farsi schiacciare dal potere militare. L’Europa che ha conosciuto decenni di aspre lotte politiche fra borghesi e rivoluzionari, conservatori e riformisti, stia vicina a questo importantissimo travaglio intellettuale e politico che sta avvenendo a tappe forzate e con tempi estremamente più rapidi di quelli del nostro XIX secolo.

C’è insomma la necessità di uscire dall’urgenza della cronaca, di fornire chiavi di lettura diversificate per le primavere mancate del Golfo, quelle quasi riuscite del Maghreb, quelle naufragate del Mashreq, per recuperare una visione nazionale del nostro ruolo nel Mediterraneo e una missione europea, paragonabile per sforzo a quella che fu operata all’indomani della caduta del Muro. Samuel Huntington, a tutti noto per alcune semplificate sintesi sullo “scontro di civiltà” aveva con anticipo indicato che all’ondata di democratizzazioni in America Latina degli anni Ottanta, a quella nell’Europa Orientale degli anni Novanta, non poteva che seguire un fenomeno similare nell’ultima parte di mondo rimasta apparentemente impermeabile: il mondo arabo.

Quel tempo è arrivato. Tocca a noi coglierne le enormi potenzialità, aiutare le transizioni, offrire un discorso pubblico che elimini una volta per sempre stereotipi e luoghi comuni buoni soli a ritardare la nostra analisi e la consapevolezza della nostra opinione pubblica.

La primavera araba non diventi un autunno

La primavera araba non diventi un autunno

Prima li abbiamo temuti, barattando la stabilità delle loro autocrazie con la protezione dalle nostre paure del radicalismo e dell’immigrazione. Poi li abbiamo applauditi quando facevano la rivoluzione non violenta con facebook e i colori della bandiera sulle guance. Nel frattempo cancellavamo le vacanze in Tunisia e sul Mar Rosso, perché fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Poi ci siamo concentrati su di noi, sul panico europeo e sulle montagne russe dell’euro e abbiamo dimenticato che le transizioni alla democrazie sono lente e difficili. E più dure ancora, se la liberazione dai tiranni è stata lunga e violenta. Oggi, i media illuminano ancora il mondo arabo, dopo il tragico attentato di Bengasi e gli assalti scomposti ad alcune ambasciate americane. I realisti dicono “ve l’avevamo detto”: in fondo le élites arabe sono sempre state più filo-occidentali delle masse arabe, pronte invece ad infiammarsi dopo ogni stupida provocazione.

Io credo, invece, che l’assalto vigliacco a Christopher Stevens – un uomo innamorato della Libia, della causa araba e della liberazione di Bengasi, perciò un nemico dei fanatici – non cambia il corso degli eventi ma ribadisce, semmai, che gli estremisti, i salafiti cercano di recuperare con azioni e gesti “antichi” un terreno largamente perduto nelle elezioni e nei numeri grandi della società araba di oggi. Organizzare duemila persone contro un’ambasciata non è impresa difficilissima. Trarne giudizi definitivi è invece avventato. Come se le provocazioni degli anarchici e dei black bloc nei meeting internazionali in Europa avessero fatto concludere che l’Occidente tramontava e le democrazie erano sconfitte. Read the rest of this entry

Dopo Gheddafi

Dopo Gheddafi

Tratto dal sito www.nuovitaliani.it

Le crude immagini dell’esecuzione del colonnello Gheddafi chiudono la prima fase della rivoluzione/guerra di Libia. Si tratta di un epilogo tragico, purtroppo ampiamente prevedibile dopo gli inviti del Segretario di Stato americano Hillary Clinton di 48 ore fa a prendere il Rais “vivo o morto” e dopo la scelta del CNT di mettere una taglia cospicua sulla testa dell’uomo. Avremmo preferito un Tribunale Internazionale dove giudicare il dittatore responsabile di tanti massacri, ma il gorgo della violenza generata ha scelto la scorciatoia della giustizia sommaria. E non ci sono piaciute – senza amore di polemica spicciola – le dichiarazioni di alcuni esponenti del governo italiano, passati con indifferenza dal baciamano allo sberleffo, secondo la peggiore delle tradizioni patrie.

L’epilogo di sangue deve diventare oggi il prologo di una nuova stagione che mette in capo al governo transitorio la grande responsabilità della ricostruzione materiale, civile e politica. E quella della necessaria pacificazione, condizione necessaria per mantenere il Paese unito.
La Libia non ha storie democratiche alle spalle da ricordare, non ha una memoria genetica di pluralismo da risvegliare. Dalla monarchia di re Idris alla grande Jamahyria di Gheddafi, i libici sono passati da un autoritarismo all’altro, entrambi privi di solide istituzioni che non fossero le appendici strumentali del capo, e non hanno mai avuto quella società civile plurale di conio europeo (borghesia, professioni, ong e sindacati) ma semmai una ragnatela tribale modernizzata dai proventi dell’economia petrolifera.

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