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Io la penso così

Io la penso così

E’ passato un mese dalle elezioni.In altre decadi, il Paese avrebbe aspettato con pazienza la soluzione di una crisi, la composizione paziente del puzzle fra partiti. Senza andare troppo indietro nel tempo occorse oltre un mese al Berlusconi vincitore del 1994 per mettere assieme il Polo della Libertà e quello del Buongoverno, l’alleanza a Nord con la Lega e quella a Sud con Alleanza Nazionale, che si erano sparati colpi di artiglieria per tutta la campagna elettorale (“con i fascisti mai”, “con voi nemmeno”) per formare un governo farlocco che durò meno di sette mesi. Ma oggi, nel tempo del “tutto, subito, qui e ora”, questo stallo sembra inaccettabile, incompatibile col ritmo delle nostre vite, col ritmo del mondo. Perciò cresce la pressione, nelle conversazioni in rete e nelle chiacchiere del caffè, in metropolitana e nelle discussioni in famiglia e fra amici: da anni non capitava di ascoltare così tanta gente (s)parlare di politica.Io la vedo così. E non sarò brevissimo.

  1. Chiaro e comprensibile lo scoramento del Pd e del suo elettorato. Quando vinci, festeggi. Quando perdi, ti incazzi, poi ti metti l’elmetto e organizzi l’opposizione. Ma noi ? Con l’elmetto in testa e la bottiglia di spumante sul tavolo, abbiamo vinto ma non possiamo governare; abbiamo perso ma siamo maggioranza relativa in Parlamento, e alla Camera un gruppo così grande non si vedeva da 25 anni. Lost in translation. Se dici che hai vinto, un commentatore ti sfotte da destra. Se analizzi la sconfitta, un altro commentatore ti sfotte da sinistra e ti dice che dobbiamo imparare da Berlusconi che festeggia a 42 denti anche quando ha preso 6 a 0 ed è così che tiene stretto il suo elettorato.
  2. Sono sereno nel confessare che sono fra quelli rimasti tragicamente delusi dal risultato. Ovviamente confronto i numeri reali con le aspettative, e con i sondaggi forniti fino al lunedì mattina. Ci si poteva aspettare il boom di Grillo o il ritorno di Berlusconi, ma entrambi i fenomeni in contemporanea francamente no. Ogni recriminazione ha i suoi contenuti di verità: non si diventa leader di un Paese per default, non si abbandonano agli avversari le piazze e le tv per rintanarsi nei teatri con i militanti, non si fa campagna elettorale con troppa responsabilità e senza promesse accattivanti ecc ecc. E’ il famoso senno di poi. Aggiungo io: sapevamo che il prezzo del sostegno a Monti dopo il rischio di default berlusconiano sarebbe stato elevatissimo ed è per questo che non ho mai pensato che la lista Monti sarebbe decollata; l’ironia di Crozza sui tripli cognomi e gli elettori da Rotary era una buona fotografia sociale di un’Italia rappresentativa di una minoranza, qualificata quanto volete, ma minoranza. E aggiungo anche, senza alcuna malizia: non si sceglie Bersani in tre milioni, con il suo profilo solido e popolare, con lo slang farcito di metafore, con lo sguardo corrucciato di chi vede la burrasca economica, per attendersi poi una campagna alla Obama.
  3. Le campagne non si fanno con i “se”. Se c’era Renzi, ad esempio. Può darsi pure che andavamo meglio, ma siamo convinti che non andava meglio anche Ingroia ? che Grillo e Berlusconi avrebbero attaccato sotto la cintura pure lui ? che la sinistra interna avrebbe votato meno volentieri o non votato ? Chi lo sa. Ogni competizione fissa convenzionalmente un risultato che vale fino alla competizione successiva. Se la Fiorentina rigioca con il Cagliari altre cinque volte, ci saranno cinque risultati diversi. Se tutte le domeniche si ricorresse la finale olimpica dei 10.000 ci sarebbero vincitori o tempi sempre diversi. Se rigiocassi la stessa partita di Ruzzle tutti i giorni avrei risultati diversi. La mia impressione – per dirla tutta – è che avremmo vinto meglio se avessimo votato una settimana prima e avremmo perso se avessimo votato una settimana dopo. Come nelle volate di ciclismo insomma. Ma se mio nonno aveva quattro palle era un flipper. E questo chiude il punto dei “se”. Apprezzo molto il comportamento di Renzi adesso. Apprezzerei ancor di più il comportamento dei suoi eletti e di quelli che aspirano ad esserne i primi alleati se ogni valutazione non ruotasse esclusivamente su quale sia il momento migliore per fare uscire alla scoperto il proprio campione. Un po’ di generosità, che diamine! C’è anche il Paese, qui e ora, cui dedicarsi, non solo quello di domani.
  4. Il risultato è ingovernabile. Per l’oggi ma, secondo me, per un bel pezzo in avanti. Una situazione da scacco matto reciproco, tre grandi minoranze (ciascuna da un quarto dell’elettorato) non coalizzabili fra loro e qualche alleato minore ad ampio rischio di tenuta in caso di nuove elezioni. Un elettorato arrabbiato che si è riconosciuto (includendo i partiti minuscoli sotto la soglia di sbarramento) per oltre il 55% in un’offerta politica anti europea, spesso anti euro. Una sorta di “fottetevi tutti”, talvolta scritto con rabbia sulla scheda, talvolta votato con la leggerezza con cui si sceglie il concorrente di X Factor, “tanto la politica è costosa, incomprensibile e inconcludente”. Così per due settimane il Pdl ha inseguito il Pd, il Pd ha inseguito Grillo, Grillo insegue le elezioni subito perché lui “mira al 100% dei voti e non si allea con nessuno”. Le cose non cambieranno con le prossime elezioni. O meglio, cambieranno alla Camera dove qualcuno vince per forza. Potrebbe capitare dunque che sia il Pdl o Grillo a prendere 340 deputati lasciandone a casa 200 del Pd fra gli applausi dei sostenitori della rivoluzione permanente. Ma al Senato è improbabile che Grillo vinca nelle 15 regioni dove oggi è dietro, è improbabile che Berlusconi vinca nelle regioni rosse, è improbabile che il Pd vinca nel nord che ha riconfermato il governo della destra in Lombardia nonostante mezza Giunta Formigoni in galera, nonostante il minimo storico della Lega, nonostante il centrosinistra candidasse il più civico, il più esterno, il più nuovo, il più quello-che –volete-voi dei suoi candidati. Stallo al Senato oggi, stallo al Senato domani.
  5. Bersani ci ha provato. Più con l’aria di chi porta una croce che di chi festeggia un traguardo. E questo va a merito della serietà del leader e dell’uomo. Era giusto farlo. Le consultazioni con le parti sociali e la società civile sono state una scelta intelligente per guadagnare tempo e per cercare di lanciare un messaggio oltre i partiti. Ma il nodo sul tavolo oggi è lo stesso di ieri. Può il Pd allearsi con chi lo sbeffeggia e lo insulta tutti i giorni, tenendo congelata la dinamica del proprio gruppo parlamentare con tweet e apparizioni da santone ? Può il Pd allearsi con un Pdl che ripropone lo stesso leader, la stessa agenda ossessionata dalla giustizia, che offre un’intesa un giorno e occupa il palazzo di giustizia il giorno dopo, che chiede di barattare 7 mesi di governo per 7 anni di Quirinale ? La proposta è francamente irricevibile, anche se Grillo la sostiene e la invoca, pensando al suo prevedibile bottino elettorale.
  6. Nonostante la lunga esperienza politica, mi perdo e dunque rigetto il labirinto delle formule (governi di scopo e quant’altro): il tema è politico, non programmatico. Queste minoranze non si alleano, né con un governo politico, meno che mai dietro la foglia di fico di un altro governo tecnico profumato di centrosinistra, con un nuovo manipolo di professori e grand commis. O cambia qualcosa dentro quelle tre grandi minoranze – la leadership, la garanzie di tenuta di un accordo, la fine dei ricatti sul Quirinale, la fine della spocchia di non collaborare con i diversi da sé – o non saranno i dieci saggi a sciogliere i nodi. Da qui il mio scetticismo e l’ironia sulla scelta di Napolitano (Se Quagliarello è un saggio, io sono Saii Baba, scrivevo ieri). Il tema – lo ripeto fino alla noia – è politico, non programmatico. Senza i cambiamenti sopra accennati, non si può chiedere al Pd di suicidarsi adesso o fra sei mesi per fare contenti gli altri.
  7. Cosa farei io ? L’ho detto alla prima Assemblea dei nostri eletti e lo ripeto ai pazienti lettori della rete. Io credo che il Parlamento abbia bisogno di un governo (a differenza di Grillo), ma non credo che il Parlamento debba rimanere inerte in attesa di un governo che forse non verrà. La prassi dice che le Commissioni si formano, si insediano e lavorano dopo che si è fatto un governo. Ma la prassi, per 16 legislature, ha eletto Presidenti delle Assemblee di grande esperienza. Se abbiamo cambiato la prassi eleggendo Grasso e Boldrini – neo-parlamentari estranei alla professione politica – possiamo pure cambiare la prassi insediando le commissioni prima che un governo si faccia. Il centrosinistra ha 340 deputati alla Camera e 8 nodi programmatici sul tavolo. Ha pure molte proposte di legge già depositate (a differenza delle zero proposte di altri). Può dunque iniziare a lavorare, non secondo un generico spirito assemblearista ma coerentemente con la maggioranza proposta agli elettori. Può discutere e approvare le proprie proposte alla Camera per poi ingaggiare il più difficile terreno del Senato. E’ lì che i nodi politici verrebbero al pettine. Che si vedrebbe fin dove il M5S mantiene il suo ruolo di attore puro, incontaminato e indisponibile, e fin dove la disponibilità del Pdl diventa concreta volontà di promuovere riforme. Se poi tutto si incartasse e si andasse a nuove elezioni, gli elettori avrebbero argomenti fattuali e non parole su cui riflettere prima di tracciare la croce sulla scheda. In buona sostanza è la stessa cosa che mi sarei aspettato dal Presidente Napolitano. Che se riconosceva a Bersani il diritto di provarci, doveva farlo provare fino in fondo nelle sedi parlamentari, senza giri a vuoto che a vuoto resteranno anche con i saggi.
  8. Un pensierino finale per la classe dirigente allargata di questo Paese. Sì, perché non soltanto la politica ma anche l’imprenditoria, il giornalismo, l’accademia sono parte della classe dirigente di un Paese. In questo mese ho visto ultraottuagenari essere rinnovati per la centesima volta alla guida di banche e fondazioni; ho visto commentatori ed editorialisti che già intingevano la penna nel calamaio al tempo di Moro, Berlinguer, De Mita e Craxi dispensare le loro rampogne e ricette per questa e la prossima Repubblica senza essere sfiorati dal dubbio che la rottamazione potrebbe applicarsi anche a loro; ho visto giovani e corrosivi corsivisti – che si erano esercitati a tre palle un soldo contro il Pd e Bersani – improvvisamente preoccupati per la mancanza di governabilità e la crescita dell’antipolitica di Grillo; ho visto capitani d’industria che continuano a comprare quote di banche e assicurazioni (che intanto non falliscono mai) e, semmai proprio proprio…, quote di servizi a concessione pubblica. Noi avremo sicuramente sbagliato molto, e siamo i primi ad esserne dispiaciuti, come persone e come generazione. Ma il riscatto sarà collettivo o non sarà. E stavolta non basterà alzare il dito per indicare una responsabilità altrui. Se un buon capro espiatorio è sempre almeno il 50% della spiegazione di una sconfitta, resta sempre l’altro 50%.

 

Buona settimana, amici cari.


Lapo Pistelli ad Affaritaliani.it: sui Marò una gestione pasticciata

Lapo Pistelli ad Affaritaliani.it: sui Marò una gestione pasticciata

Di Tommaso Cinquemani

“Terzi voleva chiudere questa esperienza di governo con un ‘do’ di petto e invece ha steccato. Monti lo ha scavalcato rimandando i Marò in India”. Lapo Pistelli, responsabile Esteri del Pd, con una intervista ad Affaritaliani.it, boccia la gestione da parte del governo del ‘fascicolo Marò′. “Le nostre mosse non sono state comunicate né agli indiani, né all’Europa e questo ha messo la nostra diplomazia in una posizione di fragilità“. La gestione della crisi ha subito “gli umori dell’opinione pubblica, sia indiana che italiana”, ma potrebbe arrivare ad una svolta: “Si sta cercando un accordo politico. Una soluzione in tempi brevi si potrebbe trovare se accettassimo una corte speciale indiana, ma…”.

Il ministro degli Esteri Terzi martedì ha rassegnato le sue dimissioni dopo il ritorno dei due Marò in India. E’ stato un comportamento corretto?
“Le dimissioni sono un atto coerente con le posizioni che Terzi ha assunto in questi giorni, cioè contro il ritorno dei Marò in India. Ovviamente questo passo indietro è un fattore di enorme indebolimento del governo in una fase delicata, soprattutto dopo la lettera-appello dei Marò per trovare una posizione politica unitaria”.

Secondo lei che cosa è stato sbagliato nella gestione del dossier?
“Diverse cose. Prima di tutto c’è un errore a monte riconducibile all’ex ministro della Difesa La Russa che ha a che fare con la catena di comando a bordo delle navi presidiate dai militari italiani per contrastare il fenomeno della pirateria e all’ambiguità sul principio dell’immunità funzionale. Il fatto poi che la scelta di mantenere i Marò in Italia non sia stata comunicata né agli indiani, né all’Europa, ha messo la nostra diplomazia in una posizione di fragilità. E’ stata una conduzione pasticciata”.

E negli ultimi giorni quali ‘passi falsi’ sono stati fatti?
“Negli ultimi 20 giorni c’è stata una incertezza di conduzione che ha portato a scambiare la volontà indiana di risolvere la questione per una sorta di tacito accordo per il quale noi ci tenevamo i Marò dopo il permesso elettorale. Il fatto di non esercitare la giurisdizione di merito in Italia ha lanciato il messaggio che noi volevamo fare melina, invece che giustizia. E questo ha scatenato la reazione popolare e quella di Sonia Gandhi”.

In molti sostengono che la soluzione giusta sarebbe quella di un arbitrato internazionale, condivide questa ipotesi?
“Non la condivido perché richiede tempi lunghissimi. Bisogna mettersi d’accordo sullo strumento e sulle regole prima ancora dello svolgimento dell’arbitrato. Questo potrebbe richiedere anni. Meglio la mediazione internazionale di alto livello, come quella applicata nel 1985 tra Nuova Zelanda e Francia nel caso Rainbow Warrior”.

Quanto ha influito la pressione dell’opinione pubblica nella gestione del caso Marò?
“Moltissimo. In India sono fortemente nazionalisti, quindi l’avere sottovalutato New Delhi ha scatenato l’opinione pubblica e quindi la politica. Ma anche da noi le decisioni del governo sono state influenzate dalla campagna elettorale. La diplomazia ormai la si fa anche tenendo conto dei flussi dell’opinione pubblica”.

Il governo ha agito in maniera collegiale, unitaria?
“Il ministro Terzi ha ricordato in Aula che il sottosegretario Staffan De Mistura è partito per l’India accompagnando i Marò non come sottosegretario, ma come inviato speciale del Presidente del Consiglio. Questo vuol dire che Monti ha scavalcato il ministro Terzi dopo la decisione del Comitato per la Sicurezza”.

Dopo la nomina di Monti premier in molti hanno detto che l’Italia ritrovava la sua credibilità internazionale. Oggi la situazione si è capovolta?
“Non c’è dubbio che la speranza di Terzi era di chiudere questa esperienza di governo con un ‘do’ di petto e invece ha steccato. Detto questo non bisogna neppure ingrandire gli eventi. Il problema è proprio la gestione della crisi. I primi giorni contestualmente sentivamo parlare del rifiuto della giurisdizione indiana, nel frattempo si negava l’incidente, ma il governo offriva un indennizzo alle famiglie dei pescatori. C’è stata una incertezza su tutta la linea”.

Ora come si esce da questa brutta situazione?
“Quello che si sta provando adesso è un accordo politico. Una soluzione in tempi brevi si potrebbe trovare se accettassimo una corte speciale indiana, con l’impegno che non si possano comminare pene superiori ai 7 anni, con il riconoscimento dell’elemento colposo e con la possibilità di poter scontare la condanna in Italia. Sono molti condizionali che però potrebbero mettere la parola fine su questa vicenda”.

Se Bersani riuscisse ad ottenere la fiducia in Aula e a formare un governo, che cosa gli suggerirebbe?
“Staffan de Mistura ha ricevuto un mandato pieno e conviene aspettare che questa linea di trattativa porti al dunque. Se così non si trovasse una soluzione la mediazione internazionale di alto livello solitamente ha prodotto effetti molto più rapidi”.

 

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