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Lapo Pistelli ad Affaritaliani.it: sui Marò una gestione pasticciata

Lapo Pistelli ad Affaritaliani.it: sui Marò una gestione pasticciata

Di Tommaso Cinquemani

“Terzi voleva chiudere questa esperienza di governo con un ‘do’ di petto e invece ha steccato. Monti lo ha scavalcato rimandando i Marò in India”. Lapo Pistelli, responsabile Esteri del Pd, con una intervista ad Affaritaliani.it, boccia la gestione da parte del governo del ‘fascicolo Marò′. “Le nostre mosse non sono state comunicate né agli indiani, né all’Europa e questo ha messo la nostra diplomazia in una posizione di fragilità“. La gestione della crisi ha subito “gli umori dell’opinione pubblica, sia indiana che italiana”, ma potrebbe arrivare ad una svolta: “Si sta cercando un accordo politico. Una soluzione in tempi brevi si potrebbe trovare se accettassimo una corte speciale indiana, ma…”.

Il ministro degli Esteri Terzi martedì ha rassegnato le sue dimissioni dopo il ritorno dei due Marò in India. E’ stato un comportamento corretto?
“Le dimissioni sono un atto coerente con le posizioni che Terzi ha assunto in questi giorni, cioè contro il ritorno dei Marò in India. Ovviamente questo passo indietro è un fattore di enorme indebolimento del governo in una fase delicata, soprattutto dopo la lettera-appello dei Marò per trovare una posizione politica unitaria”.

Secondo lei che cosa è stato sbagliato nella gestione del dossier?
“Diverse cose. Prima di tutto c’è un errore a monte riconducibile all’ex ministro della Difesa La Russa che ha a che fare con la catena di comando a bordo delle navi presidiate dai militari italiani per contrastare il fenomeno della pirateria e all’ambiguità sul principio dell’immunità funzionale. Il fatto poi che la scelta di mantenere i Marò in Italia non sia stata comunicata né agli indiani, né all’Europa, ha messo la nostra diplomazia in una posizione di fragilità. E’ stata una conduzione pasticciata”.

E negli ultimi giorni quali ‘passi falsi’ sono stati fatti?
“Negli ultimi 20 giorni c’è stata una incertezza di conduzione che ha portato a scambiare la volontà indiana di risolvere la questione per una sorta di tacito accordo per il quale noi ci tenevamo i Marò dopo il permesso elettorale. Il fatto di non esercitare la giurisdizione di merito in Italia ha lanciato il messaggio che noi volevamo fare melina, invece che giustizia. E questo ha scatenato la reazione popolare e quella di Sonia Gandhi”.

In molti sostengono che la soluzione giusta sarebbe quella di un arbitrato internazionale, condivide questa ipotesi?
“Non la condivido perché richiede tempi lunghissimi. Bisogna mettersi d’accordo sullo strumento e sulle regole prima ancora dello svolgimento dell’arbitrato. Questo potrebbe richiedere anni. Meglio la mediazione internazionale di alto livello, come quella applicata nel 1985 tra Nuova Zelanda e Francia nel caso Rainbow Warrior”.

Quanto ha influito la pressione dell’opinione pubblica nella gestione del caso Marò?
“Moltissimo. In India sono fortemente nazionalisti, quindi l’avere sottovalutato New Delhi ha scatenato l’opinione pubblica e quindi la politica. Ma anche da noi le decisioni del governo sono state influenzate dalla campagna elettorale. La diplomazia ormai la si fa anche tenendo conto dei flussi dell’opinione pubblica”.

Il governo ha agito in maniera collegiale, unitaria?
“Il ministro Terzi ha ricordato in Aula che il sottosegretario Staffan De Mistura è partito per l’India accompagnando i Marò non come sottosegretario, ma come inviato speciale del Presidente del Consiglio. Questo vuol dire che Monti ha scavalcato il ministro Terzi dopo la decisione del Comitato per la Sicurezza”.

Dopo la nomina di Monti premier in molti hanno detto che l’Italia ritrovava la sua credibilità internazionale. Oggi la situazione si è capovolta?
“Non c’è dubbio che la speranza di Terzi era di chiudere questa esperienza di governo con un ‘do’ di petto e invece ha steccato. Detto questo non bisogna neppure ingrandire gli eventi. Il problema è proprio la gestione della crisi. I primi giorni contestualmente sentivamo parlare del rifiuto della giurisdizione indiana, nel frattempo si negava l’incidente, ma il governo offriva un indennizzo alle famiglie dei pescatori. C’è stata una incertezza su tutta la linea”.

Ora come si esce da questa brutta situazione?
“Quello che si sta provando adesso è un accordo politico. Una soluzione in tempi brevi si potrebbe trovare se accettassimo una corte speciale indiana, con l’impegno che non si possano comminare pene superiori ai 7 anni, con il riconoscimento dell’elemento colposo e con la possibilità di poter scontare la condanna in Italia. Sono molti condizionali che però potrebbero mettere la parola fine su questa vicenda”.

Se Bersani riuscisse ad ottenere la fiducia in Aula e a formare un governo, che cosa gli suggerirebbe?
“Staffan de Mistura ha ricevuto un mandato pieno e conviene aspettare che questa linea di trattativa porti al dunque. Se così non si trovasse una soluzione la mediazione internazionale di alto livello solitamente ha prodotto effetti molto più rapidi”.

 

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Marò: La via d’uscita possibile

Marò: La via d’uscita possibile

Non è gonfiando il petto con la retorica nazionale come ha fatto ieri Berlusconi, né cercando di mettere toppe a colori, che verremo a capo del pasticcio dei marò in India. Una vicenda nata male e gestita in modo confuso negli ultimi giorni, sia a Roma che a Dehli. Sarà un giudizio futuro sul merito, condiviso fra Italia e India, a dirci se la nave Enrica Lexie fu oggetto di un tentato atto di pirateria o ci fu un tragico equivoco, con quali sotterfugi la nave fu convinta a entrare in porto. Stiamo invece già pagando un prezzo elevato alle regole confuse sulla catena di comando che rimise all’armatore italiano D’Amato, e non al governo italiano, la decisione di far rientrare la nave, consegnando i due marò per i quali oggi invochiamo l’immunità funzionale.

È servita la pazienza di Staffan De Mistura per assicurare l’anno scorso ai due fucilieri una permanenza tranquilla in India, uno status da non detenuti, un lavoro presso l’Ambasciata, mentre Dehli litigava con lo Stato del Kerala, affidava alla Corte Suprema il compito di dipanare i primi nodi. È maturata così la convinzione, rivelatasi fasulla, che il tempo avesse sanato la ferita: il permesso di Natale ai marò, un nuovo ministro degli esteri in India, un secondo permesso per ragioni elettorali, il dissenso sulla decisione di nominare una Corte speciale che avrebbe comunque agito in base alla giurisdizione indiana, hanno spinto il nostro governo – o una sua parte – a trattenere i marò, senza però avvisare le autorità indiane, senza informare i partner europei, coinvolti a posteriori per ottenerne la solidarietà. Il resto è cronaca: le proteste popolari, la minaccia di ritorsioni diplomatiche, le parole di Sonia Gandhi e di Manmohan Singh hanno spinto il governo a capovolgere la propria posizione, rinviando in India, presso la nostra ambasciata, i due marò poche ore prima che scadesse il permesso concordato.

Si è detto che questa scelta è dettata dalla volontà di rispettare la parola data, dalle garanzie ricevute sulla non applicazione della pena capitale in caso di processo, sull’insistenza per la creazione di una procedura arbitrale, sull’esistenza della giurisdizione indiana. Tre punti, occorre dirlo, molto fragili, per ragioni diverse.

Se la parola data in politica è una sola, o si è sbagliato prima a trattenere i marò o si è sbagliato dopo a rinviarli. Difficilmente le stesse persone possono sostenere con indifferenza entrambe le posizioni. Qualcuno dovrebbe trarne le conseguenze o chiedere limpidamente scusa.

Il ministro della giustizia indiano si è affrettato a negare l’esistenza di garanzie sulla pena capitale, affermando che l’esecutivo non può interferire con l’autonomia del potere giudiziario. Occorre che il governo italiano rispolveri – e avrebbe dovuto farlo ben prima – la giurisprudenza della Corte Costituzione italiana e della Corte Europea dei diritti umani. Ne11996, la Corte Costituzionale non consentì l’estradizione di Pietro Venezia negli Stati Uniti per un caso di omicidio, dichiarando l’incostituzionalità di una norma del codice di procedura penale e della legge di esecuzione sull’ estradizione. La Corte sostenne che l’assolutezza del divieto della pena capitale nella nostra Costituzione era incompatibile con il meccanismo delle cosiddette «garanzie» date da altri, perché oggetto di valutazione discrezionale da parte dell’esecutivo circa la loro adeguatezza. Analogamente si è pronunciata varie volte la Corte europea dei diritti umani. Che i marò, dunque, non lascino le sedi diplomatiche italiane per nessuna ragione. Se si è sbagliato finora, sarà meglio non rischiare per il futuro, garantendo pienamente i diritti costituzionali dei due fucilieri. Il governo italiano, infine, ha ripetutamente proposto di ricorrere a un arbitrato per risolvere la controversia sulla sussistenza della giurisdizione penale indiana. Visto l’indurirsi della contrapposizione politica, la richiesta di arbitrato rischia di divenire un nuovo labirinto: il consenso sullo strumento, poi sulle regole dell’arbitrato medesimo, il tempo del suo svolgimento potrebbero richiedere anni.

Meglio allora pensare alla cosiddetta «mediazione internazionale ad alto livello», una procedura che faciliti l’accordo fra le parti proponendo soluzioni accettabili contemporaneamente sul piano del diritto, della diplomazia, della politica. Ne11985, la Francia invocò l’immunità funzionale dei propri agenti segreti inviati in Nuova Zelanda per sabotare la Rainbow Warrior, che disturbava i test nucleari di Parigi. L’esplosione della nave di Greenpeace provocò due vittime. La Nuova Zelanda pretese di giudicare gli agenti condannandoli per omicidio. La mediazione politica fu trovata da Perez de Cuellar, allora Segretario Generale dell’Onu, un anno dopo. Il governo tecnico ci lascia senza rimpianti. Se la campagna elettorale non avesse preso la mano ad alcuni e distratto altri, avremmo probabilmente evitato molti errori che paghiamo oggi a caro prezzo.

 

Articolo su l’Unità del 24.03.2013

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“Israel’s present government is stubborn” – Intervista al Jerusalem Post

“Israel’s present government is stubborn” – Intervista al Jerusalem Post

Lapo Pistelli, foreign affairs director for Italy’s Democratic Party, speaks to the ‘Post’ about his movement’s Mideast policy

Italians will elect a new government in February, and the Center-Left, currently in the opposition, is defining its political platform. Lapo Pistelli, the Democratic Party’s foreign affairs director, explains his view on the Middle East.

Italy’s vote in the General Assembly last month in favor of granting “Palestine” observer state status at the UN does not signify a lessening of support for Israel’s security or future, says the representative of Italy’s second-largest party.

“We have to stop thinking in terms of being friends of one side and not the other,” Pistelli says.

“I love Israel, I’ve been there and in the Palestinian territories many times. Israel is one of the hearts of the world and an outpost of Western culture and democracy. Its present government is stubborn, but that doesn’t mean I love Israel less. I disapproved of [former premier Silvio] Berlusconi’s policies, but didn’t stop loving Italy.

“I’m convinced Israel holds the key to peace in the Mediterranean. The UN vote was meant to strengthen Abu Mazen’s [Palestinian Authority President Mahmoud Abbas’s] position and gather more Palestinian support for the two-state solution.”

Israel finds the UN vote bypassed and weakened the Oslo process.

But nothing was moving, so actually it interrupted nothing, Pistelli says.

You and Democratic Party Secretary Pier Luigi Bersani met with Abbas this week after his meetings in Rome with the pope, and the president and premier of Italy. He came to thank Italy for its vote, but what were his proposals? 

He said he is ready to return to negotiations for a two-state solution, and is awaiting eventual propositions from the European Quintet [Italy, France, Germany, Spain and the UK]. However, the new housing project [over the Green Line] is an obstacle. Even the US has criticized Israel on this.

Signs of good will are needed.

Two years ago, Israel froze settlements for a 10-month period to encourage the peace process, but President Mazen did not show up for talks. Why was that?

…20 years of missed opportunities…

But why didn’t he take advantage of the freeze at the time? 

Not enough confidence building, and mistakes on both sides. But we must move ahead and persuade Israelis and Palestinians they must open and complete peace negotiations in 2013. The blueprints are already known and have been fine-combed point by point time and again by the highest political and military experts of both peoples: Jerusalem as capitol of two states; the 1967 borders with land swaps; and a “moral recompense” to settle the Palestinian refugee issue.

Abu Mazen considers the return of approximately 5 million refugees as totally unrealistic.

Israel’s highest authority and Nobel Peace Prize winner, President Shimon Peres, said he hopes the first thing on Israel’s agenda after national elections will be a return to the negotiating table.

Strangely enough, Italian media practically ignored Mahmoud Abbas’s visit Sunday and Monday. Why? 

That’s Italian media!

What advice did you give President Abbas? 

Don’t begin asking for preconditions for peace talks; don’t take undue advantage of his UN victory: don’t aim for further recognition by other specialized UN agencies; don’t move a case against Israel at the International Court of Justice. Such moves would all block the peace process. For the same reason, we ask Israel to stop settlements and not withhold the PA’s tax revenue.

Why does Italy refuse to call for placing Hezbollah on the list of international terrorist organizations? 

We must not forget that Hezbollah is a political party legitimately elected in Lebanon, where it represents the second-largest minority.

Italy participates in the UNIFIL border patrol and has relations with Lebanon as with all Arab and Muslim countries in the area. We are first or second partners of all the new Arab Spring governments, helping midwife their new democracies.

It will take time, but we must help bring about this change.

If the Israel-Palestine issue were solved, chances for a peaceful evolution would be much higher.

Mahmoud Abbas represents only one part of the Palestinian people. Hamas continues to shout for Israel’s annihilation. In this situation how can Israel’s future security be guaranteed? 

Extremists win the day when the moderates fail.

If Abbas brought home peace and a state, Hamas would be defeated and the entire region would recognize Israel (as also outlined in the Saudi Peace Initiative).

The area is in flux, intra-Muslim alliances between Shi’ites and Sunnis are shifting. Moving forward and becoming a positive force in creating new democracies in its neighborhood is to Israel’s advantage.

We don’t want Israel to sink into introspective isolation.

What about the Iranian threat? 

We agree with the EU and US two-track strategy: pressure plus negotiations.

The embargo has effectively brought down Iran’s economy; elections are coming up and Ahmadinejad is expected to leave the scene.

Iran must remain part of the Non- Proliferation Pact countries and subject to IAEA inspections – otherwise we would have another [North] Korea bordering on Europe. We must prevent its obtaining military nuclear capability but are against a military strike, which would be neither logical nor useful.

 

Link all’intervista sul sito del Jerusalem post

Il mandato domestico della “potenza indispensabile”

Il mandato domestico della “potenza indispensabile”

[articolo pubblicato sul n° 13/2012 di Tamtàm Democratico: "Gli USA di Obama secondo"]

Secondo una convenzione diffusa, il Presidente americano spende il suo primo mandato per assicurarsi la rielezione e solo nei quattro anni successivi si dedica a realizzare la propria agenda, con una preferenza per quei dossier internazionali che gli possono garantire uno spazio nei libri di storia. Con tutte le semplificazioni del caso, c’è del vero in questa affermazione, ma dato che viviamo tempi di straordinario cambiamento, anche questa regola è mutata nella storia dei due mandati di Barack Obama. A partire dal primo.

Complice la disastrosa eredità di George W. Bush – il Presidente con il più basso tasso di gradimento domestico e internazionale degli ultimi sessanta anni – il giovane senatore afro-americano dedicò, fin dalla campagna primaria per la scelta dello sfidante democratico, uno spazio importante ai temi esteri. Per un Paese che contava ogni giorno i propri caduti sul fronte iracheno e che aveva dimostrato un’arrogante impreparazione nel tentativo di riscrivere la mappa del grande Medioriente sotto le suggestioni neo-conservatrici, hope and change furono parole da declinare anche in una nuova visione del mondo e in una diversa gestione dei rapporti con i Paesi alleati.

Da candidato prima, da Presidente poi, Barack Obama è stato la gioia di ogni internazionalista democratico. L’elenco è lungo e perciò ci limitiamo ai titoli: tour europeo con discorsi evocativi di grande impatto a Berlino e a Londra, un nuovo impegno sulla non proliferazione nucleare e sulla tutela dei diritti umani, l’offerta di un reset con Mosca e di un impegno costruttivo con l’Iran, una diversa consapevolezza dei problemi del cambiamento climatico, l’apertura al mondo islamico nel discorso del Cairo dopo un decennio di pregiudizi e paure.

Affiancato da uno straordinario Segretario di Stato come Hillary Clinton, il giovane Presidente è stato la prima personalità del mondo politico a guadagnarsi un Premio Nobel per la Pace “preventivo”, sulla sola base cioè dell’agenda presentata al mondo e dei primi passi compiuti dopo l’elezione. Come sappiamo oggi, tuttavia, quell’elenco di impegni e intenzioni, tutte giuste e condivisibili, era probabilmente troppo ambizioso, e soprattutto – proprio grazie alla inedita offerta di responsabilizzazione e coinvolgimento di alleati e avversari – dipendeva in misura equivalente dalla volontà americana e dalla risposta altrui. Il caso russo e quello iraniano testimoniano di una mano tesa cui si è risposto più volentieri con un pugno chiuso.

Il Presidente che ha combattuto per ottenere un secondo mandato è stato sicuramente più cauto, si è limitato a chiedere agli elettori di poter completare ciò che aveva iniziato, non aggiungendo però nuovi fronti al suo impegno.

Poteva contare, in questo silenzioso “downgrading”, sul totale vuoto repubblicano. Ancora gravato dall’ipoteca di Bush e semmai appesantito ulteriormente dalle bizze isolazioniste del Tea-Party, Mitt Romney si è tenuto scrupolosamente alla larga dalle questioni internazionali. Anche il dibattito televisivo tradizionalmente dedicato all’America nel mondo fu privo di colpi di scena: lo sfidante si limitava a invocare toni più assertivi e decisi verso gli avversari di sempre (Russia e Cina) ma senza una visione alternativa. Anzi, poche settimane prima, il tentativo di capitalizzare elettoralmente i fatti di Bengasi e la morte dell’Ambasciatore Stevens era stato subito stigmatizzato da tutti i media americani, che vi leggevano una rottura dell’unità nazionale in un momento di cordoglio collettivo.

Perché allora Barack Obama, così amato in tutto il mondo e così condiviso nelle proprie idee sull’agenda internazionale, dovrebbe concentrare maggiormente il suo secondo mandato sulla politica interna? Il Presidente ha rischiato di perdere la Casa Bianca per la modesta performance dell’economia e per il pessimo andamento dell’occupazione. È stato il primo Presidente uscente della storia a essere riconfermato con un tasso di disoccupazione vicino all’8%, in genere insopportabile per l’elettorato americano. Sicuramente lo sfidante non è mai riuscito a vendere in quel campo un profilo credibile, alternativo all’immagine percepita del freddo speculatore finanziario, insensibile alla parte povera della società, contribuente modesto con ingenti ricchezze all’estero, più a suo agio nel tagliare posti di lavoro con le ristrutturazioni industriali gestite dalla sua Bain Capital.

Se però il Congresso non raggiungerà in poche settimane un accordo sul bilancio, l’America cadrà nel cosiddetto “fiscal cliff”, il baratro fiscale che produrrà tagli automatici ai servizi e alle spese della pubblica amministrazione, un gigantesco “taglio lineare” sostanziale, segno della difficoltà politica di prendere decisioni condivise. Comunque avvenga il ridimensionamento del bilancio – per scelta o per “caduta” nel baratro – esso colpirà in modo rilevante la componente militare e la proiezione esterna del Paese, giudicata dalla gran parte degli elettori come un pedaggio eccessivo al ruolo di guardiano globale, che gli altri attori internazionali conferiscono volentieri a Washington, potendosi dedicare così maggiormente alla propria condizione domestica.

Ridotta in quantità, l’America nel mondo orienterà comunque anche le proprie priorità in direzioni diverse. Innanzitutto proseguirà quella progressiva curvatura verso l’Asia e il Pacifico – ciò che noi europei definiamo Estremo Oriente col nostro modo di guardare al mondo, ma che per gli americani è ben più vicino e, oltretutto, si posiziona a Occidente della propria centralità. Dal discorso di Obama a Canberra, due anni fa, dove per la prima volta fu affermata esplicitamente la nuova priorità del Pacifico rispetto all’Atlantico, l’amministrazione ha rafforzato le relazioni con vecchi e nuovi protagonisti (Giappone, India, Indonesia, Malesia e anche Birmania) costruendo una politica di soft containment verso la Cina.

Nei confronti di Pechino, partner economico e commerciale, banchiere e finanziatore ma anche probabile competitore di questo secolo, Washington dovrà modulare i propri passi, cercando di scoprire le linee guida della nuova generazione di dirigenti eletti al XVIII Congresso del PCC. Se, infatti, è vero che il nuovo leader Xi Jinping era apparso ai più come un uomo aperto e consapevole degli squilibri del modello economico e sociale cinese, come una personalità innovativa, l’elezione a sorpresa durante il Congresso di molti dirigenti legati all’ala più conservatrice getta un’ombra sulla coerenza del ricambio, lungamente coltivato da Hu Jintao e Wen Jabao.

L’amministrazione Obama proseguirà parimenti la strategia di graduale ridimensionamento della propria presenza in Medioriente. Se fino a ieri questa regione era indispensabile per ragioni energetiche, oggi si pone la possibilità di un alleggerimento, dato che in soli cinque anni gli Stati Uniti hanno ridotto la propria dipendenza energetica dal 60 al 42%, sono divenuti esportatori di punta di prodotti raffinati e perseguono con decisione l’obiettivo dell’autosufficienza contando sulle possibilità offerte dal gas di roccia, più in generale dall’unconventional gas.

In un mondo che offre nuove possibilità in Asia, in America Latina, nel bacino del Caspio, il Medioriente appare troppo complicato da seguire e da puntellare politicamente e perciò molto costoso in termini di politiche e di risorse. I processi della primavera araba hanno già impegnato duramente l’amministrazione, lacerata in un faticoso percorso di contenimento delle incoerenze fra principi e interessi, fra la retorica politica sul valore della democrazia e il sostegno alle petro-monarchie sunnite del Golfo.

Ovviamente, un’agenda più concentrata a mettere ordine in casa, reindirizzata semmai verso il Pacifico e meno ossessionata dal dover fare ovunque la differenza, potrebbe essere comunque richiamata dal disordine che regna in ogni fase di transizione multipolare. Se, ad esempio, la Russia proseguisse nella propria traiettoria involutiva, qualche altra transizione araba degenerasse in conflitto aperto, lo scontro fra Israele e Iran passasse dalle parole ai fatti, sarebbe comunque impossibile per Barack Obama girarsi dall’altra parte. A malincuore, la “potenza indispensabile” – secondo la definizione di Madeleine Albright dovrebbe comunque esercitare il proprio ruolo.

Se invece così non fosse (e in fondo è meglio per tutti), Barack Obama si concentrerà su un’agenda anti-recessiva, finalizzata a una nuova stagione di crescita economica per il suo Paese. È questa la prima richiesta che viene dalle grandi minoranze etniche che lo hanno sostenuto – i latinos, gli asiatici, i neri – un paesaggio sociale profondamente mutato, democratico e progressista, sensibile alle battaglie sui nuovi diritti civili, centrato sulla coesione sociale e sullo spirito di comunità, ma meno sensibile di una volta ai grandi ideali wilsoniani sulla comunità internazionale.

Barack Obama proseguirà invece la propria battaglia sul tema dei cambiamenti climatici globali: l’intreccio fra agenda energetica del Paese, possibilità di crescita di un’economia verde, ripetizione eccessiva di fenomeni metereologici eccezionali con danni spaventosi, rendono questo tema un incrocio interessante fra politica interna e internazionale e sollecitano le corde di una sensibilità popolare in forte aumento.

Meno America nel mondo (anche se gradualmente), meno America nelle regioni a noi vicine comporta automaticamente più spazio, più responsabilità, perfino obbligata, per l’Europa. Quale sarà, dunque, l’agenda dell’Europa, nel 2013 e all’indomani delle prossime elezioni europee del 2014? Sarà all’altezza di un’inedita stagione di multipolarismo? Questo è però un altro argomento. E dunque è meglio fermarsi qui.