Marò: La via d’uscita possibile

Marò: La via d’uscita possibile

Non è gonfiando il petto con la retorica nazionale come ha fatto ieri Berlusconi, né cercando di mettere toppe a colori, che verremo a capo del pasticcio dei marò in India. Una vicenda nata male e gestita in modo confuso negli ultimi giorni, sia a Roma che a Dehli. Sarà un giudizio futuro sul merito, condiviso fra Italia e India, a dirci se la nave Enrica Lexie fu oggetto di un tentato atto di pirateria o ci fu un tragico equivoco, con quali sotterfugi la nave fu convinta a entrare in porto. Stiamo invece già pagando un prezzo elevato alle regole confuse sulla catena di comando che rimise all’armatore italiano D’Amato, e non al governo italiano, la decisione di far rientrare la nave, consegnando i due marò per i quali oggi invochiamo l’immunità funzionale.

È servita la pazienza di Staffan De Mistura per assicurare l’anno scorso ai due fucilieri una permanenza tranquilla in India, uno status da non detenuti, un lavoro presso l’Ambasciata, mentre Dehli litigava con lo Stato del Kerala, affidava alla Corte Suprema il compito di dipanare i primi nodi. È maturata così la convinzione, rivelatasi fasulla, che il tempo avesse sanato la ferita: il permesso di Natale ai marò, un nuovo ministro degli esteri in India, un secondo permesso per ragioni elettorali, il dissenso sulla decisione di nominare una Corte speciale che avrebbe comunque agito in base alla giurisdizione indiana, hanno spinto il nostro governo – o una sua parte – a trattenere i marò, senza però avvisare le autorità indiane, senza informare i partner europei, coinvolti a posteriori per ottenerne la solidarietà. Il resto è cronaca: le proteste popolari, la minaccia di ritorsioni diplomatiche, le parole di Sonia Gandhi e di Manmohan Singh hanno spinto il governo a capovolgere la propria posizione, rinviando in India, presso la nostra ambasciata, i due marò poche ore prima che scadesse il permesso concordato.

Si è detto che questa scelta è dettata dalla volontà di rispettare la parola data, dalle garanzie ricevute sulla non applicazione della pena capitale in caso di processo, sull’insistenza per la creazione di una procedura arbitrale, sull’esistenza della giurisdizione indiana. Tre punti, occorre dirlo, molto fragili, per ragioni diverse.

Se la parola data in politica è una sola, o si è sbagliato prima a trattenere i marò o si è sbagliato dopo a rinviarli. Difficilmente le stesse persone possono sostenere con indifferenza entrambe le posizioni. Qualcuno dovrebbe trarne le conseguenze o chiedere limpidamente scusa.

Il ministro della giustizia indiano si è affrettato a negare l’esistenza di garanzie sulla pena capitale, affermando che l’esecutivo non può interferire con l’autonomia del potere giudiziario. Occorre che il governo italiano rispolveri – e avrebbe dovuto farlo ben prima – la giurisprudenza della Corte Costituzione italiana e della Corte Europea dei diritti umani. Ne11996, la Corte Costituzionale non consentì l’estradizione di Pietro Venezia negli Stati Uniti per un caso di omicidio, dichiarando l’incostituzionalità di una norma del codice di procedura penale e della legge di esecuzione sull’ estradizione. La Corte sostenne che l’assolutezza del divieto della pena capitale nella nostra Costituzione era incompatibile con il meccanismo delle cosiddette «garanzie» date da altri, perché oggetto di valutazione discrezionale da parte dell’esecutivo circa la loro adeguatezza. Analogamente si è pronunciata varie volte la Corte europea dei diritti umani. Che i marò, dunque, non lascino le sedi diplomatiche italiane per nessuna ragione. Se si è sbagliato finora, sarà meglio non rischiare per il futuro, garantendo pienamente i diritti costituzionali dei due fucilieri. Il governo italiano, infine, ha ripetutamente proposto di ricorrere a un arbitrato per risolvere la controversia sulla sussistenza della giurisdizione penale indiana. Visto l’indurirsi della contrapposizione politica, la richiesta di arbitrato rischia di divenire un nuovo labirinto: il consenso sullo strumento, poi sulle regole dell’arbitrato medesimo, il tempo del suo svolgimento potrebbero richiedere anni.

Meglio allora pensare alla cosiddetta «mediazione internazionale ad alto livello», una procedura che faciliti l’accordo fra le parti proponendo soluzioni accettabili contemporaneamente sul piano del diritto, della diplomazia, della politica. Ne11985, la Francia invocò l’immunità funzionale dei propri agenti segreti inviati in Nuova Zelanda per sabotare la Rainbow Warrior, che disturbava i test nucleari di Parigi. L’esplosione della nave di Greenpeace provocò due vittime. La Nuova Zelanda pretese di giudicare gli agenti condannandoli per omicidio. La mediazione politica fu trovata da Perez de Cuellar, allora Segretario Generale dell’Onu, un anno dopo. Il governo tecnico ci lascia senza rimpianti. Se la campagna elettorale non avesse preso la mano ad alcuni e distratto altri, avremmo probabilmente evitato molti errori che paghiamo oggi a caro prezzo.

 

Articolo su l’Unità del 24.03.2013

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3 Responses »

  1. D’accordo Lapo sulla necessità della mediazione: il caso ha troppi aspetti complessi e si è troppo “nazionalizzato” per permettere una decisione serena e priva di sospetti e parzialità.

    Non so se avverrà, però.

    Stefano

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